Metti una sera nella capitale dell’apocalisse

Un'immagine simbolica di Leo de Berardinis

Un’immagine simbolica di Leo de Berardinis

Per i tipi dell’editore Titivillus, è appena uscito, a cura di Enzo Gualtiero Bargiacchi e Rodolfo Sacchettini, «Cento storie sul filo della memoria. Il “Nuovo Teatro” in Italia negli anni ’70»: un volume di oltre cinquecento pagine in cui sono raccolte le testimonianze dei maggiori protagonisti di quel decennio favoloso, registi, attori, performers, artisti, musicisti, critici, operatori. Si va, tanto per fare solo qualche nome, da Carmelo Bene a Remondi e Caporossi, da Giuliano Scabia a Beppe Bartolucci, da Simone Carella a Manuela Kustermann, da Giuliano Vasilicò a Leo de Berardinis, da Memè Perlini a Giancarlo Cauteruccio, da Federico Tiezzi a Renato Nicolini, da Jannis Kounellis a Michelangelo Pistoletto, da Achille Bonito Oliva a Franco Cordelli, da Vittorio Lucariello a Mario Martone, da Sylvano Bussotti a Franco Quadri, da Toni Servillo a Renato Barilli.
Per la verità, il volume non trascura gli anni successivi ai Settanta: giacché, come osserva Sacchettini nella sua introduzione, «In qualche modo si vorrebbe offrire con tutte queste testimonianze anche l’opportunità di ragionare e riflettere non solo su ciò che “è stato”, ma anche su ciò che “è rimasto”. Gli anni Settanta sono una domanda aperta che continua a interrogarci sulla nostra identità, sul nostro paese […]». Sicché «Ci sono reduci, disertori, vincitori, perdenti… è un decennio che si interrompe bruscamente e si porta dietro i segni della sconfitta, della delusione, della guerra persa. Ma anche della trasformazione, della metamorfosi, dei segni vitali di immersione o di emersione che hanno contraddistinto il decennio successivo».
Pure a me – che, ponendomi al fianco di Beppe Bartolucci e Franco Cordelli prima e di Franco Quadri poi, fui, come scrive Bruno Roberti, un «”Lare” che veglia e ausculta le “tavole” della scena» – Bargiacchi chiese un intervento per questo volume. Ed io scelsi di mandargli il testo che qui di seguito riproduco. Forse se ne capirà il motivo. Prendo in prestito la foto dell’immenso ed eroico Leo per dire che farebbero bene a tacere i tuttologi che per calcolo o per miopia non presero parte a certe vicende ed oggi unicamente per calcolo ne ossequiano i protagonisti diventati celebri. Farebbero bene a tacere non tanto perché non abbiano (ogni botte dà il vino che ha) il diritto di millantare credito o di vomitare sciocchezze, quanto e soprattutto perché non hanno capito che il teatro, quello vero, esiste solo come duello all’ultimo sangue con l’essere al mondo.

 «Stateve zitte, si no stasera ‘o spettacolo invece ‘e uno se ne fa zero. Ccà nun se trova ‘o cazone ‘e ‘n’attore».
Naturalmente, Sebastiano Devastato lo spettacolo – «Napoli capitale dell’apocalisse» di Peppe Capasso, in programma allo Spazio Libero nell’ambito della rassegna «Barbari vecchi e nuovi» – ha cominciato a farlo molte ore prima: esattamente da quando, stamattina, è uscito su «Paese Sera» un mio articolo su di lui. E appena arrivo allo Spazio Libero, mi abbraccia, mi bacia e mi racconta che a Marigliano, allorché la madre – che fa la maestra – è entrata in classe, gli scolari sono scoppiati in un lunghissimo applauso.
Sebastiano è un gran regista. E così, trovandomi nel ruolo dell’attore, non posso evitare una battuta: «Io qua non ho capito chi sia il vero capocomico, se Capasso o Devastato». È il segnale che attendeva Sebastiano. Da quel momento, non esiste più niente, né Spazio Libero, né «Napoli capitale dell’apocalisse», né il pubblico, né il tempo, né la notte, né il giorno. Esiste solo Sebastiano. Strappa gli oggetti di scena dalle mani degli altri interpreti, invade gli angoli, crolla nei fili dell’amplificatore, picchia furiosamente sui muri con le palme e coi pugni. E quando Capasso lo avverte che, se rompe qualcosa, Vittorio Lucariello si arrabbierà, un urlo sanguinoso esce da quel grumo di nervi animaleschi e luciferini: «Nun me rumpite ‘o cazzo! Io sono il più grande attore del mondo… Giuseppe Bartolucci m’ha stampato, Enrico Fiore m’ha stampato… Sebastiano Devastato è il più grande di tutti!».
Già. Non è che i giornali abbiano parlato di Sebastiano. Sebastiano è quei giornali, è quelle parole, è quelle firme. Sebastiano Devastato è un’immagine, l’immagine fissa e per sempre riconoscibile che lui insegue per imprigionarvi la vita grandiosa e terribile che gli sfugge (e tuttavia da ogni parte lo bracca) e che gli altri non hanno mai capito. E adesso voi vi aspettate che io analizzi lo spettacolo? Certo, si può anche fare. Per esempio, si può dire che «Napoli capitale dell’apocalisse» presenta la stessa situazione di partenza che fu dello spettacolo di Leo de Berardinis «Chianto ‘e risate e risate ‘e chianto»: l’intellettuale (allora era un extraterrestre venuto a mettere ordine nel caos del nostro pianeta) che tenta inutilmente di svegliare dal loro torpore gli emarginati e gli esclusi.
Senonché, c’è già una prima differenza: Leo de Berardinis, in quello che fu l’ultimo spettacolo del «Teatro di Marigliano», compariva vestito elegantemente da entertainer, mentre Peppe Capasso, qui, compare con la testa chiusa in una gabbia nella quale svolazza tanto di passerotto. L’intellettuale è fuori gioco esattamente al pari degli emarginati e degli esclusi che lui, l’uno dopo l’altro, libera con la fiamma ossidrica dai teli di plastica che li avvolgono. Non è più possibile alcun discorso, non è più possibile alcun progetto, non è più possibile la sperimentazione o l’avanguardia teatrale. E dunque – al di là delle differenze d’ordine «esterno» – ciò che soprattutto distingue lo spettacolo di Capasso da quello di de Berardinis è che all’energia, capace comunque di approdare a una «formalizzazione», s’è sostituita la pura e semplice violenza, che gira solo su se stessa, in un loop da aereo impazzito. Quando – su quel mare di detriti culturali eterogenei, da «Lacreme napulitane» (e Capasso dice «E ce ne costa lacreme ‘sta Napule» e Devastato continua a dire «E ce ne costa lacreme ‘st’America») alla trance da Madonna dell’Arco e alle volgarizzazioni scientifiche della televisione – si leva il «Requiem» di Verdi e Peppe e Sebastiano si avvinghiano in una lotta feroce e oscura, ci viene sbattuto in faccia e negli occhi e nel cervello – che cosa? Nient’altro che un brandello del nostro tempo, carne da macello senza misericordia, senza paura e senza vocazione.
È finita. Sebastiano Devastato continua il suo spettacolo litigando con Capasso, galoppando freneticamente per lo Spazio Libero, facendo il galante con le ragazze, in una mano la bottiglia di birra e nell’altra la copia di «Paese Sera» con l’articolo che parla di lui. Poi mi prende in disparte e sussurra imperioso: «Mi devi fare un favore. Devi scrivere: Sebastiano Devastato non perdona ai mariglianesi». E la storia ricomincia. Come in «Mezzogiorno di fuoco»: solo che adesso, al posto di Gary Cooper, ci sono Totò e Raffaele Cutolo.
P.S. Questa è la rievocazione in presa diretta, come se avvenisse oggi, di quanto effettivamente accadde in una sera d’aprile del 1982 nello Spazio Libero di Vittorio Lucariello, autentico tempio di una sperimentazione teatrale avanzatissima proprio perché si confondeva con la vita. E Sebastiano Devastato, inutile aggiungerlo, fu uno degli «attori» principali del Teatro di Marigliano fondato da Leo de Berardinis.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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6 risposte a Metti una sera nella capitale dell’apocalisse

  1. Enzo Bargiacchi scrive:

    Grazie, Enrico. La tua descrizione della serata napoletana è un bozzetto letterariamente godibile ed efficacemente rappresentativo di quella grande stagione. Fra l’altro sono d’accordo con il tuo giudizio sull’ “immenso ed eroico Leo”. Leo de Berardinis e Perla Peragallo erano ospiti fissi nella mia rassegna pistoiese “Teatro e musica verso nuove forme espressive”. E vennero a Pistoia anche nel 1979, durante il loro “sciopero autonomo”, solo per amicizia, come dichiarò Leo in un’intervista citata nel libro.
    Enzo Bargiacchi

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, caro Enzo, per aver fatto in modo – con il prezioso libro curato da te e da Rodolfo Sacchettini – che si ridestasse il ricordo di vicende a cui molti debbono molto, anche se alcuni di loro se ne sono dimenticati.
    Enrico Fiore

  3. Fulvio Arrichiello scrive:

    Buongiorno,
    approfitto per segnalare altri due libri relativi all’argomento: “Il Nuovo Teatro in Italia. 1968-1975” di Salvatore Margiotta e “Il Nuovo Teatro in Italia. 1976-1985” di Mimma Valentino, anch’essi pubblicati da Titivillus.
    Sono due letture appassionate.
    Fulvio Arrichiello

  4. Enrico Fiore scrive:

    Grazie per la segnalazione. Sono importanti, ripeto, questi contributi intesi a diffondere il ricordo di anni cruciali da troppi e troppo spesso dimenticati.
    Enrico Fiore

  5. Rodolfo Sacchettini scrive:

    Grazie Enrico, per il tuo testo e per le cose che scrivi. Devo dire che da tutte queste testimonianze emergono moltissime cose non solo interessanti, il che è ovvio, ma fondamentali per capire qualcosa in più dello “spirito del tempo” di quel decennio, e capire qualcosa in più dei nostri giorni disordinati. Vogliamo andare avanti con un’altra giornata di approfondimento. Ti teniamo aggiornato, grazie.
    Rodolfo Sacchettini

  6. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a te, caro Rodolfo. Abbiamo bisogno di iniziative come questa: per trovare nuove spinte ad andare avanti pur nei “giorni disordinati” di cui parli.
    Enrico Fiore

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