Raskol’nikov? Adesso è un immigrato africano

Leonardo Lidi e Paolo Musio in un momento di «Delitto e castigo», in scena al teatro Storchi di Modena (le foto dello spettacolo che illustrano l'articolo sono di Luca Del Pia)

Leonardo Lidi e Paolo Musio in un momento di «Delitto e castigo», in scena al teatro Storchi di Modena
(le foto dello spettacolo che illustrano l’articolo sono di Luca Del Pia)

MODENA – Mentre l’altro si china ad allacciarsi le scarpe, lui gli punta sul didietro uno sguardo voglioso insistito ed ostentato. E quando lui lo incontra di nuovo, trova l’altro che lo aspetta sul divano con le chiappe in aria. E avendo recuperato sotto quel divano una scarpa dell’altro, lui l’annusa estasiato, mormora rapito: «Versace» e se la porta via in una busta della spesa.
Che ne dite, pensate che lui sia un pederasta feticista qualsiasi e l’altro una checca ordinaria da marciapiede? E vi sbagliate. Lui è Porfirij Petrovic e l’altro è Raskol’nikov, così come compaiono nell’adattamento di «Delitto e castigo» in scena allo Storchi e realizzato da Konstantin Bogomolov per i quarant’anni di Emilia Romagna Teatro.

Konstantin Bogomolov

Konstantin Bogomolov

Occorre subito aggiungere, però, che questa e altre invenzioni del genere non rientrano solo nell’atteggiamento dissacratorio, irriverente, iconoclasta e provocatorio che ha fatto del quarantaduenne Bogomolov uno dei protagonisti della scena russa di oggi e un ospite particolarmente richiesto nei più importanti teatri e festival europei: occorre, cioè, ricordare che Bogomolov, e davvero non a caso, s’è laureato, oltre che all’Accademia Russa di Arti Teatrali (la mitica Rati-Gitis), al Dipartimento di Filologia dell’Università statale Lomonosov di Mosca.
Qui, infatti, c’impartisce per l’appunto una lezione da vero e proprio filologo, e già quando dichiara che portare oggi in scena un romanzo come «Delitto e castigo» significa soprattutto «cercare il modo di rapportarsi a un materiale fortemente arcaico e scoprire come padroneggiare l’inattualità del tema trattato», poiché «le domande che ci si poneva nel diciannovesimo secolo non sono più formulate oggi con lo stesso pungente impulso di trovare a tutti i costi una risposta». E in specie, «il dubbio se sia giusto o meno uccidere non è più un argomento così attuale».
Vivaddio. Finalmente, dopo oltre cinquant’anni di attività professionale, mi sono imbattuto in un teatrante che ha l’onestà intellettuale di ammettere che quello che porta in scena è datato. Giacché le conosciamo fin troppo bene le litanie dei teatranti che pretendono di spacciare per attualissimo tutto quello che propinano al pubblico: dal dramma satiresco alle prediche di Giovacchino Forzano passando per i misteri medievali.

Enzo Vetrano e Marco Cacciola

Enzo Vetrano e Marco Cacciola

Solo per questo, dunque, Bogomolov meriterebbe una medaglia. Ma, poi, ne merita una seconda, e assai più significativa, per il discorso che sviluppa in merito a Dostoevskij, del quale, d’altronde, è un esperto di rilievo, avendo già messo in scena adattamenti de «I fratelli Karamazov» e de «L’idiota». E proprio sulla base di tale competenza si spiega e si giustifica il coraggio che manifesta nel fare a pezzi (nel senso migliore dell’espressione: quello di anatomizzare) un monumento della letteratura russa quale, appunto, il gran Fëdor. Poiché sappiamo che, fra i romanzi di Dostoevskij, «Delitto e castigo» è certamente quello che vanta il maggior numero di adattamenti: teatrali, musicali, cinematografici e televisivi. Basta ricordare per il teatro le trasposizioni di Baty (1933) e Strehler (1948), per la musica l’opera lirica di Pedrollo (1926), per il cinema i film di Chenal (1935), de Fuentes (1950) e Lampin (1956), per la televisione gli sceneggiati di Enriquez (1954) e Majano (1963). Ma nessuno avrebbe potuto immaginare, giusto l’esempio che ho citato in apertura, un adattamento in tutti i sensi «osé» come quello di Bogomolov.
Per intenderci, è come se in Italia si portasse in scena un adattamento del romanzone di Don Lisander in cui comparisse una Lucia Mondella in guêpière che spinge a pratiche sadomaso un Renzo Tramaglino che va a canne. O come se si rappresentasse una trasposizione della «Commedia» in cui Dante fosse guidato nel suo viaggio oltremondano da un Virgilio fricchettone e Beatrice diventasse una diva del porno.
Ma, lo ripeto, nel caso di Bogomolov non si tratta di trovate estemporanee. Quando, a proposito dell’allestimento del regista russo, ho parlato di una lezione da vero e proprio filologo, intendevo riferirmi a una cosa precisa, all’indiscutibile superiorità che vanta la critica storica: la quale ci ha insegnato che bisogna interpretare un testo non sulla base del significato che le sue parole hanno oggi, ma sulla base del significato che quelle parole avevano al tempo in cui furono scritte. E ancora una volta, e per citare appunto la «Commedia» dantesca, faccio in proposito l’esempio del Canto V dell’Inferno. Il passo «[…] Francesca, i tuoi martìri / a lagrimar mi fanno tristo e pio» significa esattamente il contrario della commozione proverbialmente attribuita a Dante, perché il testo teorico di riferimento era per lui la «Summa theologiae» di Tommaso d’Aquino: e nella «Summa theologiae» di Tommaso d’Aquino i termini «tristitia» e «pietas» indicano, rispettivamente, l’orrore che il cristiano prova di fronte al peccato e il terrore che induce in lui la certezza della punizione divina.

Margherita Laterza e Renata Palminiello

Margherita Laterza e Renata Palminiello

Dunque, non vedo come non si possa riconoscere che Raskol’nikov costituisce un autentico specchio e un altrettanto indubitabile paradigma della sua epoca. Infatti accoglie e mescola (anche contraddittoriamente) le teorie marxiane, il superomismo nietzschiano, il misticismo passivo e messianico connaturato allo spirito russo e, last but not least, il nichilismo. E di conseguenza il suo delitto – l’uccisione di una vecchia usuraia e di sua sorella – assume una doppia valenza: simbolica, perché l’usuraia incarna la malvagità e l’ingiustizia del mondo e della società, e dimostrativa, perché, uccidendo quella vecchia, Raskol’nikov vuol provare a se stesso e agli altri ch’è capace di porsi al di là e al di sopra della legge morale.
Ma oggi, oggi che viviamo in tempi drasticamente post-ideologici? Bogomolov risponde mettendo in campo, nel merito, immagini polisemantiche che hanno la stessa pregnanza e la stessa potenza di quelle a cui ci abituò il Nekrosius degli anni migliori. E tanto a partire dall’invenzione capitale che trasforma Raskol’nikov in un immigrato africano, assolutamente privo, per l’appunto, di motivazioni ideologiche.

Diana Höbel

Diana Höbel

Vedi la sequenza che, svolgendosi all’inizio dello spettacolo, risulta perciò, e non a caso, collocata in posizione fortemente icastica. Viene depositato sul bordo del proscenio un manichino di donna, mentre si sente un colpo di pistola. E certo, è la prefigurazione del delitto che poi compirà Raskol’nikov. Ma il vero Raskol’nikov uccide due donne bianche, mentre il manichino di donna depositato sul bordo del proscenio è nero, nero come il Raskol’nikov di Bogomolov. Sicché la sequenza in questione sfocia in un esito molto chiaro: la sostanza ideologica (l’affermazione di sé) che connota quel delitto nel romanzo di Dostoevskij viene sovrastata, e quindi cancellata, dall’accenno ai migranti annegati che il mare sbatte sulle nostre coste. Raskol’nikov, insomma, oggi può uccidere soltanto se stesso.
Ugualmente, per fare ancora un esempio, Svidrigailov non solo viene interpretato da un’attrice, per sottolineare ulteriormente l’ambiguità di quello ch’è il più tremendo dei personaggi di «Delitto e castigo», ma compare, grottescamente, con una corona in testa e una banana sbucciata in una mano e una noce di cocco nell’altra. È l’allusione oltremodo sarcastica al re del Belgio che colonizzò il Congo. Mentre l’accentuare in chiave omosessuale il rapporto anch’esso ambiguo che nel romanzo di Dostoevskij si stabilisce fra il giudice istruttore Petrovic e l’assassino Raskol’nikov serve, in tutta evidenza, a richiamare l’attenzione dello spettatore sulle condizioni tuttora oppressive che i gay scontano in Russia.
Ecco come «Delitto e castigo» può essere ricondotto – con interventi fra le righe, e dunque con efficacia maggiore – alla nostra più bruciante contemporaneità. E tanto, attenzione, senza che il testo di Dostoevskij sia stato riscritto: è stato solo tagliato e riassemblato, senza subire modifiche sostanziali.
Si sarà capito, poi, che nell’allestimento diretto da Bogomolov prende corpo, insieme con l’ironia di cui ho dato qualche esempio, una degradazione generale che è proprio quella indotta dal tramonto delle ideologie, nell’ex Unione Sovietica in specie e nel mondo tout court: si va, mettiamo, dalle fellatio ai riferimenti ad Internet (vedi quella «marmeladovasonja.com», login «papa», password «daughter»), da quei volti platealmente tinti di nero come nelle peggiori rappresentazioni di «Otello» al terribile prefinale in cui, mentre viene risucchiato in alto, verso la graticcia, un Crocefisso in forma di manichino asessuato, si sentono, ossessivi, i gemiti di una donna travolta dall’orgasmo.
Già, il sacro che cede il passo alla quotidianità, la spiritualità che abdica in favore della corporeità. Non è questa la condizione in cui affoghiamo oggi? E perché, allora, avrebbero dovuto fare eccezione il sacro e la spiritualità di Dostoevskij, una volta calati nella stessa condizione attraverso un adattamento di «Delitto e castigo» portato in scena ai nostri giorni?
D’accordo, ci sono pure gl’intoppi: come, tanto per dirne uno, quello costituito dai troppi e troppo lunghi monologhi, che dipendono, s’intende, da un cedimento alla forma letteraria. Ma, insisto, siamo di fronte a un’operazione non solo intrigante, bensì fondata su basi addirittura scientifiche. E «scientifica», nel senso di estremamente precisa, mi pare anche la prova offerta dagl’interpreti, che cito tutti senza distinzioni: Leonardo Lidi (Raskol’nikov), Paolo Musio (Porfirij Petrovic), Renata Palminiello (Svidrigailov), Diana Höbel (Alena Ivanovna, Sonja Marmeladova), Enzo Vetrano (Lizaveta e Marmeladov), Margherita Laterza (Dunja Raskolnikova), Anna Amadori (Pulcherija Raskolnikova) e Marco Cacciola (Nikolka).
In conclusione, un’altra tappa significativa – dopo «Anna Karenina» per la regia, appunto, di Eimuntas Nekrosius, «Le signorine di Wilko» per la regia di Alvis Hermanis e «Memorie di un pazzo» e «La tartaruga» per la regia di Levan Tsuladze – del percorso avviato da Emilia Romagna Teatro con l’affidare a prestigiosi (corsivo)metteurs en scène stranieri la guida di un cast tutto italiano. Solo dall’incontro fra culture e sensibilità diverse può nascere il nuovo. È ovvio, e lo è specialmente a teatro.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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