Considerazioni sul pubblico: teatrale fa rima con virtuale

 

imageNAPOLI – Prima di scrivere queste brevi e avvilite considerazioni, ho atteso che gl’interessati fossero andati via da Napoli, per non procurare loro altri disagi ed altre amarezze.
La stagione della Galleria Toledo s’è conclusa con la proposta, da giovedì a domenica scorsi, dello spettacolo «Lasciatemi sola», prodotto da Nidodiragno e Teatro Due di Parma. Ed ecco che giovedì mattina mi hanno avvertito dalla Galleria Toledo che la compagnia aveva chiesto che i critici venissero solo il giorno dopo. Ma quando, venerdì sera, sono andato nella sala di via Concezione a Montecalvario, c’erano appena due spettatori. Proprio due, uno e due.
Eppure lo spettacolo – circa i suoi contenuti e le sue forme rimando alla recensione pubblicata qui sotto – si giovava di un testo che ha rappresentato un autentico caso letterario, tanto da destare l’ammirazione di personaggi come Valéry e Claudel, e dell’interpretazione di Sara Bertelà, una delle migliori attrici oggi in circolazione.
Insomma, uno spettacolo di notevole rilievo, una delle poche eccezioni nell’ambito di una stagione avarissima di offerte non dico stimolanti ma semplicemente decenti. E il fatto che l’episodio che ho raccontato non sia il solo del genere (sempre alla Galleria Toledo fui l’unico spettatore ad assistere, il 26 gennaio del 2012, alla «prima» di «Italianesi», un formidabile spettacolo del pluripremiato autore, regista e attore Saverio La Ruina sul dramma dei rimpatriati dall’Albania dopo la seconda guerra mondiale) è già grave di per sé, ma risulta ancora più grave perché riguarda l’ultimo teatro che a Napoli ospiti con sufficiente regolarità le formazioni di un certo spessore dedite alla ricerca.
Questo significa che va sempre più assottigliandosi il pubblico teatrale vero: ossia il pubblico composto da persone che acquistano il biglietto al botteghino, con ciò dimostrando di aver fatto una scelta precisa e, quindi, di essere informati circa lo spettacolo che si apprestano a vedere. Vorrei sapere che cos’hanno da dire, in proposito, gl’impresari, i direttori di teatri e di festival, gli autori, i registi e gli attori che continuamente si riempiono la bocca con la parola «cultura» e – spalleggiati dagl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti e dagli intellettuali tuttologi di pronto intervento – non tralasciano occasione per sbandierare ai quattro venti i loro trionfalistici proclami sulla presunta «patria del teatro» che sarebbe rappresentata da Napoli.
In effetti, i signori citati si preoccupano solo dell’altro pubblico, quello virtuale: costituito dagli invitati e dagli addetti ai lavori che affollano in prevalenza le «prime» e dagli abbonati, i quali, salvo rarissime eccezioni ormai sempre più rare, acquistano l’abbonamento senza sapere niente o quasi degli spettacoli in esso compresi, che ai loro occhi rappresentano solo un’alternativa alla pizza e alla canasta con cui riempiono i giorni della settimana.
Da questo pubblico virtuale, pur di non perderlo, si sopporta di tutto: a cominciare dalle vettovaglie che vengono consumate in sala e dai telefoni tenuti accesi (e spesso utilizzati per conversazioni neppure a bassa voce) durante l’intero spettacolo. E a rimpolparlo concorrono espedienti della più varia natura, ma sempre riprovevoli: dalle scolaresche deportate a vedere cose di cui nessuno gli ha spiegato niente (con la conseguenza, ovvia, di disgustare circa il teatro i potenziali spettatori di domani) agli abbonamenti a prezzi stracciati (cinque spettacoli a venti euro, per esempio). E senza contare il teatro al nero, rappresentato, poniamo, da un tal Pasquale che, se non erro, già mi è capitato di nominare: un Pasquale che, avendo un parco di circa cinquemila clienti sparsi fra Napoli e i più sperduti paesi dell’entroterra, crea una sorta di abbonamento trasversale fra vari teatri del capoluogo, offrendo a quei clienti spettacoli a dieci euro l’uno (otto vanno al teatro e due a lui) senza che per gli stessi venga staccato il biglietto.
Adesso, magari, il numero di clienti e i prezzi di Pasquale, vista la crisi, saranno più bassi. Ed è certo, in ogni caso, che sempre più basso sarà il livello medio degli spettacoli offerti a questa massa allo stato brado. Mentre i più avvertiti componenti dell’altro pubblico, quello vero, già cominciano, come si vede, ad allontanarsi in misura crescente. E mentre cominciano ad allontanarsi anche i più colti fra gli abbonati «storici». Lo ha scritto ieri Guido Trombetti su «la Repubblica», con accenti di risentita ironia: «Per quanto mi riguarda sarò soltanto una (ovviamente irrilevante) particella in “instabile” moto browniano “nell’instabilità” del sistema di uno “stabile” “instabile”. E mi trasferirò, non senza un pizzico di amarezza dopo anni ed anni, “stabilmente” altrove».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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2 risposte a Considerazioni sul pubblico: teatrale fa rima con virtuale

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Napoli Teatro Festival Italia.
    Come previsto, ha avuto un grande spazio sui media: stimati ottantamila spettatori, esauriti al novanta per cento, biglietti “venduti” raddoppiati.
    Dunque, grande enfasi sui numeri e sui prezzi popolari. In realtà, i prezzi erano da svendita, con riduzioni varie e due per uno. Il costo medio per chi ha pagato é stato sui tre/quattro euro. E’ educativo un simile prezzo? Come percepirà un giovane la richiesta di dieci/quindici euro per un posto in un teatro in stagione? I milioni di euro pubblici messi nel Festival devono sostenere il Teatro o affossare gli spazi privati?
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Mastroianni,
    La rimando al mio commento sul Festival.
    Cordiali saluti.
    Enrico Fiore

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