Quell’ultimo ballo sulle macerie dell’amore

Sara Bertelà in un momento di «Lasciatemi sola», in scena alla Galleria Toledo (le foto sono di Carmela Bove)

Sara Bertelà in un momento di «Lasciatemi sola», in scena alla Galleria Toledo (le foto sono di Carmela Bove)

NAPOLI – «Parlando a qualcuno, questi brevi romanzi si svuotano della loro sofferenza, che si fissa e diventa un’entità esterna».
Ecco, credo che sia questo il passo decisivo di «Lasciami sola», il testo di Marcelle Sauvageot che, col titolo «Lasciatemi sola», Nidodiragno e Teatro Due di Parma presentano ancora oggi e domani, alla Galleria Toledo, in un adattamento di Sara Bertelà e Danilo Macrì. E credo che sia decisivo, quel passo, perché dà conto esattissimo e del procedimento narrativo adottato dall’autrice e degli esiti che lo stesso ottiene e trasmette, in termini di analisi ed emozione insieme.
Si tratta, per l’appunto, di un romanzo breve, l’unica opera pubblicata dalla Sauvageot. E davvero non a caso il suo titolo originale suona «Commentaire»: giacché, proprio come Giulio Cesare, l’autrice mette in campo una scrittura spoglia e improntata a un’estrema oggettività, la sola, del resto, che poteva consentirle di svolgere un tema dichiaratamente autobiografico senza cadere nelle sabbie mobili della mozione dei sentimenti.
Incontriamo qui una giovane donna che, ricoverata in un sanatorio, spera di guarire dalla tisi e, intanto, riceve una lettera in cui l’uomo che ama le annuncia il suo matrimonio con un’altra e le offre in cambio la propria amicizia. E quella donna è appunto Marcelle Sauvageot, un’insegnante di trent’anni che ha frequentato ambienti surrealisti e, nel 1930, si trova ricoverata nel sanatorio di Hauteville. Morirà nel 1934 in un sanatorio di Davos, appena un anno dopo la prima edizione del suo volumetto. E il testo che scrisse si traduce, nel solco del passo citato, in un lungo monologo (forse la lettera di risposta che intendeva spedirgli) rivolto mentalmente all’uomo che l’ha lasciata, per svuotarsi, giusto, della sofferenza che le riempie l’anima e il cervello e proiettarla al di fuori di sé, come fissata in un vero e proprio referto autoptico.
Il pregio straordinario di un testo del genere – che testimonia da un lato «una vita mentale fuori del comune», come sembrò a Valéry, e dall’altro una «lucidissima e straziata dignità», come parve a Claudel – sta dunque nel fatto che si colloca in quella sorta di limbo, in quella sospensione del tempo che spasima tra il passato, di cui si avverte ancora l’eco, e il futuro, di cui non giunge ancora la voce: parlo, insomma, del non-luogo in cui abitano le «intermittenze del cuore» di proustiana memoria, destate da epifanie minime come una parola, un gesto o un semplice sguardo.

Un altro momento di «Lasciatemi sola»

Un altro momento di «Lasciatemi sola»

C’è un altro passo bellissimo del romanzo della Sauvageot che descrive come meglio non si sarebbe potuto questa situazione ad un tempo angosciante poiché dolorosa e rasserenante poiché inevitabile: «Il tempo passato, se risuona ancora così vicino al presente, è triste come la fine di una festa, quando si spengono le luci e si resta soli a guardare le coppie che se ne vanno per le strade buie. È finita: non abbiamo più nulla da aspettare, e perciò restiamo fermi là per un tempo imprecisato, anche se sappiamo che non ci sarà più niente». Lo facciamo perché, come dice ancora la Sauvageot, «C’è un angolo recondito che non vibra, ma che rimane testimone del godimento. È la parte di noi che ricorda e che può dire: sono stato felice e so perché».
In fondo dovremmo far nostro, sempre, lo scatto d’orgoglio di quella donna: «Certo che voglio perdere la testa, ma voglio cogliere il momento in cui la perdo, e spingere la conoscenza più lontano della coscienza che desiste». Ed è per questo, allora, che il finale del romanzo può accoppiare il gelido e tremendo catalogo dei vari tipi di tosse che di notte si levano dalle stanze e dai corridoi del sanatorio con la liberazione del ballo conclusivo tra i ricoverati. Anche se magari è solo un sogno, come il bacio che lei si dà davanti alla sua porta, che è, si capisce, la porta della morte, con il compagno di ballo di una sera. Senza che si dicano niente.
Aggiungo, adesso, che l’allestimento, a cura di Paola Donati, è perfettamente in linea con tutto questo, dando luogo a uno spettacolo umbratile e forte insieme, che esce continuamente da se stesso perché confuso dai «rumori rauchi» che gli grida come a Campana «la lontana vita». In scena solo scarni e però essenziali arredi: un’alta specchiera e una pedana a scalini, mentre il quaderno che la protagonista tiene in mano serve per indicare, ad un tempo, lo scudo della scrittura dietro il quale si trincerò la Sauvageot (la Forma entro cui disperatamente ci s’illude di poter imprigionare la crudele imprevedibilità del mondo) e il confine tra il testo e l’interprete (la Barriera ideale che assicura il sempre necessario straniamento rispetto all’immedesimazione).
In breve, la Donati ha avuto l’acuta intuizione di tradurre nella realtà ciò che nel testo avviene solo nella mente del personaggio protagonista: perché ora quel monologo viene rivolto a noi spettatori, che, così, diventiamo l’amante che s’è dileguato. Ed è a questo che, impareggiabilmente, si lega la splendida, inenarrabile prova di Sara Bertelà: fin dalla primissima sequenza, quando – sull’onda dell’«Impossible love» cantata da Melody Gardot e che tornerà nel corso dello spettacolo come un implacabile, magnetico leitmotiv – prima accenna a incerti passi di danza e poi riproduce, con un parlare ansante, il rumore ritmico del treno che si sta dirigendo verso il sanatorio.
A un certo punto, addirittura, Sara – che a tratti starà, sulla pedana, in bilico con i piedi su un vassoio traballante – scapperà dal palcoscenico per perdersi in una corsa pazza intorno agli spettatori, come, per l’appunto, a stringerli nell’abbraccio che non può più dare all’uomo amato che ha respinto l’amore. Ma, s’intende, dall’esterno si rientrerà nell’interno. Il bacio finale con il compagno di ballo di una sera lo darà a se stessa nello specchio. E sembra che ci arrivi, un soffio esausto e tuttavia intrepido, la carezza del «Take this waltz» che Leonard Cohen cantò sui versi fantasmatici di Lorca: «Prendi questo valzer, prendi questo valzer, prendi la sua cintola spezzata… Prendi questo valzer, prendi questo valzer, è tuo ora. È tutto quel che c’è».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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