Se il letto (da montare) prende il posto del mondo

Chiara Francini e Raoul Bova in un momento di «Due», in scena al Diana (foto di Fabiolo Vino)

Chiara Francini e Raoul Bova in un momento di «Due», in scena al Diana (foto di Fabiolo Vino)

NAPOLI – Con la cronica puntigliosità che la distingue, lei c’informa che alla celebrazione del loro matrimonio mancano 6 giorni, 18 ore e 35 minuti. E dunque incontriamo Paola e Marco mentre stanno arredando la casa che li accoglierà. Lui, in particolare, è alle prese con un oltremodo difficoltoso montaggio del letto, dividendosi tra il solito complicato libretto d’istruzioni e le continue accuse d’inettitudine della compagna.
È l’attacco di «Due», l’atto unico di Luca Miniero e Astutillo Smeriglia in scena al Diana per la regia del primo. E siccome a mia volta v’informo che il montaggio di quel letto andrà avanti dall’inizio alla fine, son sicuro che voi vi chiederete che cosa si dicono nel frattempo i citati Paola e Marco. In sostanza non si dicono niente: per usare un termine della stessa Paola, si limitano a «cazzeggiare». E se volete un esempio di tale «cazzeggio», eccovelo sotto forma del dialogo seguente.
«Marco – Mi spiace, ma io sono solo un uomo reale. Con tutti i suoi difetti, ma fidati, qualche cosa di buono ce l’ho anch’io, se permetti.
Paola – Se lo dici tu… Però non sei quello che sognavo da bambina.
Marco – Ah, sì? Chi sognavi?
Paola – Ken.
Marco – Chi?
Paola – Ken. Quello delle Barbie.
Marco – No, dai, ti prego… Uno non può sognare Ken.
Paola – Perché? Mi rilassa.
Marco – Io mica ho mai sognato Barbie, ed era sicuramente una bella figa.
Paola – Ma se non ce l’aveva.
Marco – Perché? Ken ce lo aveva?
Paola – Che c’entra, a me piace l’anima delle persone, mica sono un porco come te. Da piccola Ken mi dava sicurezza».
Peraltro, il dialogo in questione anticipa la battuta capitale di Paola: «Voglio sapere tutto. Dimmi come sei, chi sei… ma senza mentire, senza farti più bello, così io posso decidere liberamente». Ma come, questi due stanno insieme da sette anni e lei – a 6 giorni, 18 ore e 35 minuti dal matrimonio – ancora non ha capito lui com’è e chi è, tanto da pretendere di sapere subito quale sarà il loro futuro di coppia e come sarà Marco fra vent’anni?
In fondo, però, Paola qualche ragione ce l’ha, perché il suo Marco è alquanto inafferrabile: insegnante di educazione fisica, impartisce agli alunni anche lezioni di zumba; e intanto – considerandosi un filosofo, fedele soprattutto ad Epicuro – va scrivendo addirittura un trattato sull’esistenza umana.
Lui e Paola, inoltre, evocheranno e interpreteranno, nel corso dello spettacolo, anche i personaggi del passato e del futuro annunciati dalle sagome di cartone che li circondano sul palcoscenico. E così apprenderemo, tanto per fare un altro esempio, che Marco ha voluto chiamare le figlie Epicura e Atarassia, mentre, pur citando Kant, non disdegna di opporre a Paola, che ha tirato in ballo una sua vera o presunta avventura con un pony dicendo: «E adesso ho capito perché li chiamano pony», il pecoreccio interrogativo «Perché ce l’hanno piccolo?».
Basta, via. A differenza di Paola, voi avete capito tutto. Il testo di Miniero e Smeriglia è tanto pretenzioso quanto inconsistente e sconclusionato. E la regia di Miniero si limita a rimpolparne la resa con gl’intermezzi dei due protagonisti che ballano sull’onda di canzoni di successo, da «Rimando» a «Lontano dagli occhi», mentre il mondo di cui ha preso il posto quel letto da montare viene ridotto ai confusi frammenti minimi di telegiornale piazzati, per salvarsi l’anima, al principio e al termine.
Dal canto loro, Raoul Bova e Chiara Francini ci mettono, in definitiva, l’uno il fisico e l’altra le smorfiette e gli strilletti con cui cerca di strappare le risate che non riesce a strappare il copione. E insomma, uno spettacolo commerciale messo su al solo scopo di attirare il pubblico, in specie quello femminile, con il fascino del bel mattatore. Io ho assistito alla replica di venerdì sera. Risatine sparse, per l’appunto, e applausi piuttosto tiepidi. A sipario chiuso, il signore che sedeva accanto a me prima ha mormorato fra i denti un «Mah…mah…mah» e poi mi si è rivolto con un ancora più eloquente: «Era meglio se me ne restavo a casa a vedermi in televisione “Totò, Peppino e la malafemmina”””».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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