Autobiografia di Nekrosius nelle vesti del «Digiunatore»

Genadij Virkovskij e Viktorija Kuodyte in «A hunger artist - Un digiunatore», di scena ancora oggi al Bellini

Genadij Virkovskij e Viktorija Kuodyte in «A hunger artist – Un digiunatore», di scena ancora oggi al Bellini

NAPOLI – Prima di analizzare lo spettacolo – parliamo di «A hunger artist – Un digiunatore», l’allestimento di Eimuntas Nekrosius che, ispirato al racconto di Kafka del 1922,  giusto «Un digiunatore», è in scena ancora oggi al Bellini – mi sembra utile riassumere, a proposito del grande praghese, le coordinate culturali e ideologiche che lo inquadrano.
Il cardine su cui ruota l’intera opera di Kafka è la frattura tra la parola e la realtà: una frattura in conseguenza della quale le cose – private del Nome – acquistano per l’uomo un’oggettualità anonima, per l’appunto, e nello stesso tempo ostile e spietata. E in altri termini, credo che, riguardo a Kafka, occorra prendere in considerazione l’Ecclesiaste, in particolare l’Ecclesiaste che, proprio, denuncia le parole «logore» e «usurate».
Per giunta, l’Ecclesiaste rimanda non solo, e in generale, alla cultura ebraica (e segnatamente chassidica) di Kafka, ma anche, e in specie, a quel padre che nel racconto «La condanna» assume gli attributi del Geova biblico e, attenzione, condanna il figlio «al suicidio» perché, mediante il fidanzamento, ha osato penetrare nel regno della vita e della verità.
Mi viene in mente, quindi, l’analisi di taglio esistenzialistico che dell’opera di Kafka, partendo da Heidegger, fece Emrich nel ’58: in sostanza, siamo di fronte alla ricerca del proprio sé autentico in una realtà totalmente alienata dalle strutture dell’apparato.
Di qui la decisiva dichiarazione di Kafka: «Io ho potentemente assunto il negativo del mio tempo, che mi è certo assai vicino e che non ho il diritto di combattere, ma in certo modo di rappresentare. Né al pochissimo di positivo, né al negativo estremo che si rovescia in positivo, io ho partecipato in alcun modo».
La conseguenza di tutto questo sul piano formale ed espressivo sta da un lato in uno dei più emblematici aforismi di Kafka («Il mondo interiore può essere solo vissuto ma non descritto») e dall’altro nella nota osservazione di Benjamin: «Tutta l’opera di Kafka rappresenta un codice di gesti».

Franz Kafka

Franz Kafka

Ecco a che cosa si riferisce, al di là della superficie narrativa, il racconto in questione. Ed è opportuno considerare che «Un digiunatore» non è un racconto a sé stante, ma il terzo di un gruppo di quattro, pubblicato nel 1924 sotto il titolo complessivo «Ein Hungerkünstler (letteralmente: «Un artista della fame»). E giacché si tratta dell’ultima opera curata da Kafka, è lecito valutare questo gruppo di quattro racconti (gli altri tre sono, nell’ordine, «Primo dolore», «Una donnina» e «Giuseppina la cantante ossia Il popolo dei topi») come un vero e proprio testamento.
Siamo di fronte, in breve, a un riepilogo dei temi che ho cercato d’illustrare. Basterebbe riflettere sul personaggio protagonista di «Primo dolore»: un acrobata che ha organizzato la sua vita in modo da rimanere sul trapezio incessantemente, giorno e notte. E segue quella che lo scrittore definisce «il mio piccolo giudice in gonnella». Per finire, appunto dopo «Un digiunatore», con la Giuseppina cantante che, appartenendo al popolo dei topi, in effetti non canta, ma fischia soltanto, come tutti i suoi simili. E non configura, quest’insieme, una verifica simbolica della predetta frattura tra la parola e la realtà?
Insomma, il protagonista di «Un digiunatore» è digiuno proprio della realtà. E due passi del racconto occorre tener presenti al riguardo. Del suo «digiunatore» – chiuso in una gabbia a disposizione di un impresario che lo esibisce a pagamento – Kafka dice: «Egli solo sapeva […] quanto facile fosse il digiunare. Era la cosa più facile del mondo» e che «mai, dopo nessun periodo di digiuno […] aveva lasciato la gabbia spontaneamente».

Eimuntas Nekrosius

Eimuntas Nekrosius

Non significa, questo, che il «digiuno» in parola è una condizione ontologica? E si spiega così, del resto, la confessione finale, solo all’apparenza sorprendente, del personaggio: è stato costretto a digiunare, dichiara, perché non riusciva a trovare il cibo che gli piacesse. Ciò che spiega, d’altronde, il motivo del progressivo disinteresse del pubblico nei suoi confronti: essi, gli spettatori, sono, rispetto a lui, ben sazi di tutti i tipi di «cibo» possibili e immaginabili, sono, cioè, totalmente immersi nella realtà che a lui è negata.
Un allestimento che illustrava quanto ho detto sinora con inventiva e precisione radicale insieme fu quello di Antonio Latella, dedicato per l’appunto ai racconti di Kafka, che vidi alla Schauspielhaus di Colonia nell’ottobre del 2009. Lo spettacolo si svolgeva per intero alla ribalta, con gli attori che il pesante sipario tagliafuoco abbassato separava dallo spazio scenico. Dunque, ci trovavamo immediatamente di fronte a una frattura strutturale. E per giunta, gli oggetti, gli arredi e i cibi menzionati dal testo non si vedevano, ma venivano sostituiti dai loro nomi tracciati con il gesso su una miriade di lavagne. Per Latella, in breve, le parole non solo si separavano dalle cose, ma nientemeno ne prendevano il posto. E lo sottolineava in maniera eclatante la citazione conclusiva dalla «Lettera al padre»: «Non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro».
Ma, per suo conto, Nekrosius (vedi l’intervista di Anita Curci pubblicata in «Proscenio») ha dichiarato: «Credo che il “Digiunatore” sia un’allegoria. Sono incline a pensare e a credere che Kafka parli di un artista. Si tratta della “fame” […] di attenzione del pubblico. Tutto questo sacrificio per delle mani che applaudono…». E ne consegue un allestimento che si aggancia fondamentalmente all’interno e alla lettera del testo. Il quale viene reso attraverso una semplice lettura drammatizzata con il corredo di pantomime varie: a partire da conferenze sul funzionamento dell’apparato gastroenterico introdotte da sagome di cartone dello stomaco e dell’intestino e concluse dal rumore dello sciacquone per finire alla frenesia dei «numeri» circensi.
Il tutto è scandito dall’annuncio reiterato «La cena è pronta»; e al posto della gabbia che compare nel testo c’è un interno con attaccapanni, sedie e un pianoforte verticale: una classica dimensione spettacolare, quella che, per l’appunto, annunciava la citata dichiarazione di Nekrosius. Il quale, poi, introduce nella rappresentazione evidenti risvolti autobiografici: tanto che affida il ruolo del «digiunatore» alla sua attrice-feticcio, la sempre straordinaria Viktorija Kuodyte, e la incarica, verso la fine, di tirar fuori da uno scatolone un congruo numero dei diplomi, delle targhe e dei trofei da lui guadagnati nel corso della carriera, di esporli in bella mostra al proscenio e quindi di ricacciarli nello scatolone attaccando a quest’ultimo il cartello «Monte dei pegni».
Avete capito, dunque, che nello spettacolo di cui parliamo circola una buona dose d’ironia. Ma si tratta, credo, di un’ironia che a sua volta costituisce il risvolto di una mancanza: quella dell’incomparabile potenza visionaria delle immagini che impose Nekrosius come uno dei maggiori registi teatrali contemporanei. Infatti, è ormai da vari anni che gli spettacoli del maestro lituano danno l’impressione che ci si trovi di fronte a una sorta di laboratorio, a un’esercitazione scolastica: tanto avvenne nel 2012, a Brindisi, con l’allestimento dedicato all’Inferno e al Purgatorio danteschi, tanto si ripeté tre mesi dopo, a Vicenza, con l’allestimento dedicato al Paradiso e tanto, per chiudere con gli esempi, si verificò l’anno successivo, ancora all’Olimpico di Vicenza, con l’allestimento ispirato al Libro di Giobbe.
S’intende, non è assolutamente in discussione, di «A hunger artist – Un digiunatore», il livello tecnico e stilistico, a cominciare dalla prova eccellente degl’interpreti: che sono, accanto alla Kuodyte, Vygandas Vadeisa, Vaidas Vilius e Genadij Virkovskij. Ma forte è la nostalgia per l’Eimuntas Nekrosius di un tempo. E non vorrei che quel cartello «Monte dei pegni» fosse una malinconica dichiarazione di resa.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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