Le «Sorelle Materassi» di Palazzeschi? Adesso ricamano gag

Da sinistra, Lucia Poli (Teresa),  Sandra Garuglieri (Niobe) e Milena Vukotic (Carolina) in una scena di «Sorelle Materassi»

Da sinistra, Lucia Poli (Teresa), Sandra Garuglieri (Niobe) e Milena Vukotic (Carolina) in «Sorelle Materassi»

NAPOLI – Dopo oltre mezzo secolo di attività professionale, dovrei essere vaccinato. E invece certi teatranti riescono ancora a sorprendermi: il più delle volte, s’intende, in senso negativo. Come fa ora il Geppy Gleijeses regista dell’adattamento di «Sorelle Materassi» firmato da Ugo Chiti e che la Gitiesse Artisti Riuniti presenta al Delle Palme fino a domenica.
Prima di andare a vedere lo spettacolo, mi son letto attentamente, ciò che faccio sempre, le note di regia. E un punto mi ha lasciato sul serio a bocca aperta: quando Gleijeses scrive che, a proposito del gran romanzo di Palazzeschi, gli «viene in mente un titolo di Ruccello: “Piccole tragedie minimali”». Ma come, uno analizza «Sorelle Materassi» e gli viene in mente, di Ruccello, «Piccole tragedie minimali» e non «Ferdinando», che suggerisce un riferimento semplicemente obbligato almeno a partire dall’equivalenza, se non altro in termini di trama, fra Ferdinando, appunto, e il Remo palazzeschiano?
Immaginiamo dove avrebbe potuto condurre, nell’ambito della «rivisitazione» in parola, il personaggio di Ruccello considerato nella sua sostanza – mutuata da «Teorema» di Pasolini – configurante una pura idea a metà fra la «bellezza che uccide» di Rilke e, se vogliamo, l’«angelo necessario» di Cacciari. E si sarebbe trattato, del resto, di uno «sconfinamento» non solo intrigante, ma anche e soprattutto in linea con i risvolti profondi del tema sviluppato da «Sorelle Materassi».
Parliamo di uno dei temi ricorrenti del Palazzeschi narratore, il tema degli esclusi (e, in specie, degli emarginati) che s’illudono di partecipare anche loro alla vita vera, che gli passa accanto indifferente e tutto sommato li ignora, attraverso il contatto con i «vincitori»: gli esclusi e gli emarginati che, quando l’illusione crolla, si consolano con il ricordo delle pause di gioia comunque concesse da quel contatto.
Più che il racconto di momenti, «Sorelle Materassi» è, dunque, un esame autoptico di sentimenti. E di conseguenza, la cronaca cede continuamente il passo all’introspezione psicologica, sulla base del mélange d’ironia e crepuscolarismo che di Palazzeschi costituì la cifra distintiva fondamentale. E lo dimostra, più che a sufficienza, giusto la trama, notissima ma che qui di seguito riepilogo per comodità del lettore.

Marilù Prati è Giselda

Marilù Prati è Giselda

Le sorelle di cui nel titolo, prigioniere di un vero proprio limbo, il borgo di Santa Maria a Coverciano, sono Teresa, «tutta forza morale», Carolina, «tutta languore», e Giselda: le prime due zitelle, «cucitrici di bianco» ricercatissime dalla nobiltà fiorentina per i corredi da sposa, e la terza, inasprita e polemica, venuta a vivere con loro dopo il fallimento del suo matrimonio. E assiste a quello stillicidio di giornate sempre uguali e sempre inutili, come uno stanco nume tutelare e non a caso definita dall’autore «informe», la serva Niobe. Finché piomba in una simile palude il nipote Remo, figlio di una quarta sorella Materassi, Augusta, morta dopo una vita di stenti. E una volta cresciuto, Remo – bello, avido e sfrontato – non ci mette molto ad accendere nelle due ricamatrici cinquantenni e nella serva un affetto venato di sensualità. Né l’avversione di Giselda può impedire che a poco a poco gli sperperi di danaro del giovanotto riducano Teresa e Carolina in miseria, costringendole a cucire corredi per le contadine mentre lui se ne va oltreoceano insieme con la ricca americana Peggy, che ha appena sposato, e l’amico Palle.
Ebbene, il tema sul tappeto trova una sintesi emblematica nel capitolo finale, ancora non a caso intitolato «Sepolte vive». Teresa e Carolina si presentano al matrimonio di Remo a loro volta, e grottescamente, vestite da sposa: il ballo tristissimo che intraprendono fra loro ispira – scrive Palazzeschi – «la visione macabra di due cadaveri»; e infatti, dopo quelle nozze le ricamatrici tornano a chiudersi nella propria «tomba», a contemplare insieme con Niobe le fotografie del nipote, in particolare quella che lo ritrae in un succinto costume da bagno. Con il relativo e non meno emblematico dialogo conclusivo: a Teresa che, alludendo alla clientela di prima, dice che di fronte a quella fotografia «le signore avrebbero arricciato il naso e storto un po’ la bocca», Niobe risponde: «Sì, ma dopo avere bene aperto gli occhi».

Gabriele Anagni è Remo

Gabriele Anagni è Remo

Si poteva sottolineare con maggior forza e, insieme, con maggiore levità la povera consolazione delle tracce minime (le fotografie di Remo) che il passaggio fugace della vita vera (il contatto con quel giovanotto bello ma traditore) ha lasciato nell’anima solitaria e smarrita delle tre donne?
Senonché, il dialogo conclusivo (e ripeto, assolutamente emblematico) in questione è stato tagliato. E allora capisco perché, nel riferirsi a Ruccello, Gleijeses abbia citato, a proposito di «Sorelle Materassi», «Piccole tragedie minimali» e non «Ferdinando». L’adattamento di Chiti – comprimendo in appena un’ora e trentacinque minuti di spettacolo quel romanzo, lungo e articolato in ben otto grandi capitoli («Santa Maria a Coverciano», «Sorelle Materassi», «Remo», «Palle», «Teresa e Carolina stanno a vedere, Giselda canta, Niobe va a vendemmiare», «Giselda! Niobe!», «Peggio» e, appunto, «Sepolte vive») – si riduce a un «bignami» che alterna una serie di bozzetti a soliloqui che servono, necessariamente, a informare circa il non detto e il non rappresentato. Mentre la regia dissemina gag a ripetizione, dalla scenetta da avanspettacolo in cui si traduce l’incontro di Teresa e Carolina col Papa ai passettini buffi che adottano i «due cadaveri» di Palazzeschi, passando per il bacio che a turno le stesse Teresa e Carolina danno a Remo e alla loro uscita piegate in due dalla dispensa in cui le ha rinchiuse il nipote per obbligarle a firmargli una cospicua cambiale.
Compressi, data una gabbia del genere, appaiono anche la classe, lo stile e la sapienza tecnica di Lucia Poli (Teresa) e Milena Vukotic (Carolina). La migliore finisce per risultare, così, Marilù Prati, che dona a Giselda (vedi la sua impagabile uscita sul canto a dispetto di «Scrivimi») un robusto e sarcastico realismo di evidente ascendenza eduardiana. E non più che ordinari appaiono Gabriele Anagni (Remo), Sandra Garuglieri (Niobe), Gian Luca Mandarini (Palle) e Roberta Lucca (Peggy).
Infine, annoto che ieri ho visto lo spettacolo in una condizione anomala. Non s’era mai data, almeno stando ai miei ricordi, una «prima» alle cinque e mezzo del pomeriggio. È stata una scelta autonoma del teatro o una scelta fatta dal teatro insieme con la compagnia? Pongo la domanda perché, si capisce, non possono non risultare diversi uno spettacolo serale, destinato a un pubblico indifferenziato, e uno spettacolo pomeridiano, riservato a un pubblico composto da anziani, in parecchi casi molto anziani, per venire incontro alla loro (legittima, per carità) esigenza di non tornare a casa tardi. Per questo pubblico particolare – lo dico con tutto il rispetto, giacché, del resto, sono un anziano anch’io – i teatri programmano repliche apposite.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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