Girotondo sotto l’ombrello con il fantasma dell’amore

 

Giulia Innocenti e Paolo De Vita in una scena de «La riunificazione delle due Coree» (foto di Fiorella Passante)

Giulia Innocenti e Paolo De Vita in una scena de «La riunificazione delle due Coree» (foto di Fiorella Passante)

ROMA – Quando un’interlocutrice invisibile le chiede perché voglia divorziare, la donna risponde: «Non c’è amore tra noi», precisando: «Non ce n’è mai stato». E quando l’interlocutrice invisibile le chiede: «Come si manifesta questa mancanza d’amore?», lei risponde secca: «Non si manifesta affatto». E riferisce al riguardo quanto ha risposto al marito che le chiedeva in che cosa dovesse consistere quell’amore che tra loro mancava: «Gli ho risposto», dice, «che davvero non lo sapevo, che non era possibile descrivere una cosa che non si conosce».
È la scena iniziale de «La riunificazione delle due Coree», il testo di Joël Pommerat che ho incontrato ieri sera al Vascello nell’allestimento prodotto da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro per la regia di Alfonso Postiglione. E si tratta di una scena che mette subito in primo piano, e dunque in una posizione fortemente icastica, il tema della commedia in questione.

Joël Pommerat

Joël Pommerat

Il titolo, appunto «La riunificazione delle due Coree», costituisce la metafora dell’impossibilità di recuperare un rapporto d’amore che s’è interrotto o sta per interrompersi. E tale impossibilità viene esposta e analizzata attraverso una struttura drammaturgica articolata in diciotto quadri («Divorzio», «La parte di me», «Pulizie», «Separazione», «Matrimonio», «Morte», «Filtro», «Denaro», «Chiavi», «Amore», «Attesa», «Guerra», «Bambini», «Memoria», «L’amore non basta», «Amicizia», «Valore 1», «Valore 2», «Incinta» e «Valore 3») per complessivi cinquantuno personaggi (mogli, mariti, amiche, amici, amanti, prostitute, addette alle pulizie, promessi sposi, medici, dirigenti, preti, genitori, direttrici di scuola elementare, maestri, vicini di pianerottolo, soldati, baby-sitter, malate di Alzheimer e compagne in gravidanza).
È una struttura drammaturgica che richiama direttamente il celeberrimo «Girotondo» di Schnitzler: che, come sappiamo, verte su dieci incontri d’amore concatenati dall’immancabile presenza in quello successivo di uno dei due partners dell’episodio precedente. E infatti, qui la protagonista del settimo quadro («Filtro») ha lo stesso nome, Myriam, di una delle sorelle di Christelle, protagonista del quinto («Matrimonio»); e l’uomo che incontra la prostituta nel quadro «Valore 2» è uno dei guidatori dell’autoscontro che compare nel quadro «Valore 1».
Ma il richiamo a «Girotondo» risulta importante ben al di là dell’aspetto formale. Giacché, quando parliamo di quel capolavoro di Schnitzler, parliamo del preludio a una faccenda che si chiama «finis Austriae». E vedremo in che modo quest’ultima si riverbera sul testo di Pommerat.
Se nel primo quadro la donna che vuole divorziare dice che la mancanza d’amore tra lei e il marito «non si manifesta», nel terzo la donna che spera che tutto possa ricominciare dopo il divorzio non vede il corpo del marito che s’è impiccato e che, per ciò stesso, rappresenta l’impossibilità di ricominciare. In breve, Pommerat sostiene che l’amore è sempre destinato a finire, e che, per giunta, questa fine è talmente connaturata nella nostra vita da porsi come una dimensione ontologica, di cui, appunto, non si ha coscienza.
Ci si sposta, quindi, dall’amore agl’interrogativi che riguardano la vita in generale, il senso dello stare al e nel mondo. E la risposta, mi sembra, sta nel quarto quadro, «Separazione». Tra un uomo e una donna s’intromette un altro uomo, che viene dal passato e vuole portar via con sé quella donna. Ed è tutto un rincorrersi di «non sapevo come parlartene» e di «non ho modo di spiegarti meglio la situazione». Del resto, il vero e proprio leitmotiv del testo di Pommerat è la battuta «non capisco», che ricorre dall’inizio alla fine detta a turno da più di un personaggio. Finché la donna del quarto quadro dice al suo compagno: «Accetta le cose, non c’è una vera spiegazione».
È quest’ultima la battuta-chiave de «La riunificazione delle due Coree». Perché rimanda all’osservazione capitale che fa Musil ne «I turbamenti del giovane Törless»: «Le cose, accadono; ecco tutta la saggezza». E di conseguenza, la scrittura di Pommerat si rivela come una scrittura problematica. Tanto è vero che, per esempio, nel quinto quadro, «Matrimonio», dà luogo a un’autentica farsa surreale: sul punto di sposarsi con Christian, Christelle scopre, in un crescendo tutto da ridere, che lui, in un passato più o meno prossimo, ha avuto relazioni più o meno «corpose» con ciascuna delle sue quattro sorelle.

Un altro momento dello spettacolo (foto di Luigi Maffettone)

Un altro momento dello spettacolo (foto di Luigi Maffettone)

In altri termini, qui viene messa in discussione la parola stessa che dovrebbe dipanare quelle ingarbugliate matasse di sentimenti. E penso, in proposito, al passo di Maeterlinck che Musil pone in epigrafe, giusto, a «I turbamenti del giovane Törless»: «Strano come, appena pronunciata, una cosa perde il suo valore. Crediamo d’essere scesi sul fondo dell’abisso, ma quando risaliamo, le gocce rimaste sulle pallide punte delle nostre dita, non hanno più nulla del mare da cui provengono».
Non a caso, nel decimo quadro, intitolato «Amore», un maestro elementare, che dice di provare per l’appunto amore nei confronti di uno dei suoi alunni, viene accusato dai genitori di quello d’essere, né più né meno, un pedofilo ributtante.
Su tale piano, per la verità, nel quadro in questione il testo di Pommerat sconta qualche contraddizione: dal momento che finisce per addobbare con una retorica sentimentale piuttosto pesante le parole (l’autodifesa del maestro, il suo sbandierare come dovere l’amore verso gli alunni) che vorrebbe denunciare.
Ma si capisce, in definitiva, che l’amore su cui ne «La riunificazione delle due Coree» si spendono fiumi di parole giunge a rivelarsi – e proprio perché se ne parla tanto – un semplice fantasma. C’è la coppia che ingaggia una baby-sitter perché badi a bambini inesistenti che quel marito e quella moglie si sono inventati per riempire il vuoto della loro vita; e c’è la donna – il punto più alto del testo – che, preda dell’Alzheimer, fa l’amore con il marito che va a trovarla in ospedale senza rendersi conto che lo sta facendo proprio con l’uomo che sposò per amore.
La rivelazione arriva al termine, e perciò è collocata in una posizione non meno icastica di quella iniziale. L’uomo del quadro «Incinta» dice alla donna: «Non esiste l’amore, Annie, è un’invenzione. È tutto mentale, è come un delirio. L’amore è una specie di malattia»; e aggiunge: «L’amore è irreale, è un concetto». Sicchè l’ultima parola tocca alla prostituta che ha appena avuto un rapporto fugace con l’uomo che ha trascinato in un terreno abbandonato nei pressi di un luna park: poiché, ovviamente, lei è la sacerdotessa di un rito che, in quanto mercenario, è l’esatto contrario dell’amore.
Ora, dico che, rispetto a tutto questo, la regia di Alfonso Postiglione adotta una serie di segni tanto forti quanto convincenti. L’instabilità e il disagio delle vite trascinate nel girotondo di Pommerat viene così sottolineata, solo per fare qualche esempio: all’inizio e alla fine i personaggi appaiono in impermeabile, e si determina, peraltro, un continuo viavai di ombrelli aperti, persino nel chiuso di un salotto; un quadro in stile optical art (è del bravissimo scenografo Roberto Crea) cerca invano di stare appeso diritto sulla parte di fondo; e l’impianto figurativo cita, insieme, le solitudini di Hopper e la gelida sensualità di Vettriano.
Spiccano, poi, talune invenzioni che non esito a definire strepitose: come quella iniziale che mostra l’interlocutrice invisibile del primo quadro, giacché il rapporto interpersonale dal vivo amplifica l’ineffettualità delle parole che si scambiano le due donne, e quella dell’uomo che nel salotto di cui sopra offre alla donna una tazza di caffè che tira fuori dalla tasca dei pantaloni, giacché il prestidigitatore è colui che – come i personaggi in campo fanno con le parole – traveste e trucca con le manipolazioni la realtà ordinaria.
L’unico momento debole coincide con il quadro «Amore», ma dipende in buona misura dalla debolezza che, come ho detto, il testo manifesta in quel punto. Per il resto, uno spettacolo di tutto rispetto. Ed eccellenti risultano i suoi interpreti, poiché giusti oltre che dotati sul piano tecnico. Li elenco tutti senza distinzione: Sara Alzetta, Giandomenico Cupaiuolo, Paolo De Vita, Biagio Forestieri, Laura Graziosi, Giulia Innocenti, Gaia Insenga, Armando Iovino e Giulia Weber. Con una mia personale preferenza, se mi è consentito esprimerla, per le due Giulia e per De Vita.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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