L’isola che non c’è. Con vista sulla Rivoluzione Francese

Duilio Paciello (Iphicrate) ed Elena Gigliotti (Euphrosine) ne «L'isola degli schiavi», in scena al Duse di Genova (tutte le foto che illustrano l'articolo sono di Bepi Caroli)

Duilio Paciello (Iphicrate) ed Elena Gigliotti (Euphrosine) ne «L’isola degli schiavi», in scena al Duse di Genova
(tutte le foto che illustrano l’articolo sono di Bepi Caroli)

GENOVA – «Quest’isola che non c’è è abitata da gente strana, con strani costumi e leggi ancora più strane: i padroni diventano servi e i servi possono finalmente comandare. Anche in questo “mondo” capovolto riprende l’eterno gioco dei sentimenti, delle passioni e delle debolezze umane. Ma tutto si arresta all’apparire di una nave che riporterà i quattro protagonisti alla civiltà. Ogni cosa ritornerà come prima, tutto ridiventerà “normale”, salvo che, forse, i padroni avranno imparato ad essere un po’ più umani e giusti e i servi avranno compreso che il cuore dei padroni è come il loro, capace di amare e di soffrire».
Tanto, fra l’altro, mi disse Giorgio Strehler una sera del 1996 a Parigi, dopo l’ennesimo trionfo, all’Odéon, del suo allestimento de «L’isola degli schiavi» di Marivaux. E me ne son ricordato mentre ieri sera, al Duse, assistevo a un nuovo allestimento della celebre commedia, quello coprodotto dal Théâtre National de Nice e dallo Stabile di Genova per la regia di Irina Brook, direttrice, appunto, del «Nazionale» nizzardo oltre che figlia della gran coppia Peter Brook-Natasha Parry.

Andrea Di Casa è Trivellino

Andrea Di Casa è Trivellino

Ma, ovviamente, il ricordo non è stato destato solo dal fatto che i due spettacoli in questione vertono sullo stesso testo, bensì, anche e soprattutto, dalla circostanza che è la stessa pure l’atmosfera che li connota, determinata – poiché, al di là delle ideologie, l’elemento comune a tutti gli uomini è la fisicità – da una strenua e inesausta esplosione d’energia, come una sorta d’interminabile esercizio ginnico. E giova, prima di continuare, riassumere la situazione di partenza a cui quest’atmosfera si aggancia.
Due padroni, Iphicrate ed Euphrosine, naufragano con i rispettivi servi, Arlecchino e Cléanthis, su un’isola ch’è una vera e propria Isola dell’Utopia. Giacché chi la governa, Trivellino, impone che i padroni e i servi si scambino nomi, abiti e, soprattutto, ruoli: allo scopo, s’intende, d’essere rieducati, e cioè convinti: i padroni a pentirsi della loro superbia e dell’arroganza verso i servi, i servi ad affrancarsi dall’odio verso i padroni.
Dunque, occorre scorgere, nei meccanismi drammaturgici di Marivaux, il senso profondo e anticipatore (rispetto alla Rivoluzione Francese) di tematiche che – a prescindere dalla forma classica e dagli elementi tratti dalla commedia italiana (ad esempio le coppie parallele di padroni e servi e i travestimenti in serie) – attengono a inequivocabili contingenze di natura sostanzialmente storica ed economica. E proprio quest’ambivalenza sottolinea, con precisione e gusto, la regia di Irina Brook.

Marisa Grimaldo (Cléanthis) e Martin Chishimba (Arlecchino)

Marisa Grimaldo (Cléanthis)
e Martin Chishimba (Arlecchino)

In pratica, sul piano formale assistiamo a un divertissement sfrenato che – a partire dal «Mambo italiano» con cui a sipario chiuso vengono introdotti gli attori intenti a indossare i costumi – mescola stilemi da Commedia dell’Arte, ritmi farseschi e pantomime, persino tirando in ballo, fra varietà e musical, Amleto col suo teschio e il Conte Ugolino; mentre, sul versante dei contenuti, si dà luogo a decisive e significative invenzioni come, tanto per fare un esempio, quella di Arlecchino che, nel quadro della rieducazione in atto, costringe Iphicrate a raccogliere fondi per «Save the Children».
S’invera perfettamente, così, la battuta conclusiva di Trivellino, quella che Strehler richiamava con le parole citate e che qui, lo intuite, viene rivolta direttamente al pubblico: «Padroni voi, avete agito male; padroni loro, vi hanno perdonato: traetene le conseguenze. La differenza di condizioni sociali è solamente una prova a cui gli dei ci sottopongono».
Intuite pure, del resto, che il merito di un simile risultato va attribuito anche alle capacità e all’impegno degl’intepreti: Duilio Paciello (Iphicrate), Martin Chishimba (Arlecchino), Elena Gigliotti (Euphrosine), Marisa Grimaldo (Cléanthis) e Andrea Di Casa (Trivellino). E al termine, tra gli applausi, risultava impressionante, mentre sul palcoscenico lei s’inchinava a ringraziare, la somiglianza di Irina Brook col padre. Sì, in tutti i sensi vale la definizione del teatro che lo stesso Strehler mi diede una volta: «È lo stare dell’uomo con l’uomo».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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