GENOVA – «Quest’isola che non c’è è abitata da gente strana, con strani costumi e leggi ancora più strane: i padroni diventano servi e i servi possono finalmente comandare. Anche in questo “mondo” capovolto riprende l’eterno gioco dei sentimenti, delle passioni e delle debolezze umane. Ma tutto si arresta all’apparire di una nave che riporterà i quattro protagonisti alla civiltà. Ogni cosa ritornerà come prima, tutto ridiventerà “normale”, salvo che, forse, i padroni avranno imparato ad essere un po’ più umani e giusti e i servi avranno compreso che il cuore dei padroni è come il loro, capace di amare e di soffrire».
Tanto, fra l’altro, mi disse Giorgio Strehler una sera del 1996 a Parigi, dopo l’ennesimo trionfo, all’Odéon, del suo allestimento de «L’isola degli schiavi» di Marivaux. E me ne son ricordato mentre ieri sera, al Duse, assistevo a un nuovo allestimento della celebre commedia, quello coprodotto dal Théâtre National de Nice e dallo Stabile di Genova per la regia di Irina Brook, direttrice, appunto, del «Nazionale» nizzardo oltre che figlia della gran coppia Peter Brook-Natasha Parry.
Ma, ovviamente, il ricordo non è stato destato solo dal fatto che i due spettacoli in questione vertono sullo stesso testo, bensì, anche e soprattutto, dalla circostanza che è la stessa pure l’atmosfera che li connota, determinata – poiché, al di là delle ideologie, l’elemento comune a tutti gli uomini è la fisicità – da una strenua e inesausta esplosione d’energia, come una sorta d’interminabile esercizio ginnico. E giova, prima di continuare, riassumere la situazione di partenza a cui quest’atmosfera si aggancia.
Due padroni, Iphicrate ed Euphrosine, naufragano con i rispettivi servi, Arlecchino e Cléanthis, su un’isola ch’è una vera e propria Isola dell’Utopia. Giacché chi la governa, Trivellino, impone che i padroni e i servi si scambino nomi, abiti e, soprattutto, ruoli: allo scopo, s’intende, d’essere rieducati, e cioè convinti: i padroni a pentirsi della loro superbia e dell’arroganza verso i servi, i servi ad affrancarsi dall’odio verso i padroni.
Dunque, occorre scorgere, nei meccanismi drammaturgici di Marivaux, il senso profondo e anticipatore (rispetto alla Rivoluzione Francese) di tematiche che – a prescindere dalla forma classica e dagli elementi tratti dalla commedia italiana (ad esempio le coppie parallele di padroni e servi e i travestimenti in serie) – attengono a inequivocabili contingenze di natura sostanzialmente storica ed economica. E proprio quest’ambivalenza sottolinea, con precisione e gusto, la regia di Irina Brook.
In pratica, sul piano formale assistiamo a un divertissement sfrenato che – a partire dal «Mambo italiano» con cui a sipario chiuso vengono introdotti gli attori intenti a indossare i costumi – mescola stilemi da Commedia dell’Arte, ritmi farseschi e pantomime, persino tirando in ballo, fra varietà e musical, Amleto col suo teschio e il Conte Ugolino; mentre, sul versante dei contenuti, si dà luogo a decisive e significative invenzioni come, tanto per fare un esempio, quella di Arlecchino che, nel quadro della rieducazione in atto, costringe Iphicrate a raccogliere fondi per «Save the Children».
S’invera perfettamente, così, la battuta conclusiva di Trivellino, quella che Strehler richiamava con le parole citate e che qui, lo intuite, viene rivolta direttamente al pubblico: «Padroni voi, avete agito male; padroni loro, vi hanno perdonato: traetene le conseguenze. La differenza di condizioni sociali è solamente una prova a cui gli dei ci sottopongono».
Intuite pure, del resto, che il merito di un simile risultato va attribuito anche alle capacità e all’impegno degl’intepreti: Duilio Paciello (Iphicrate), Martin Chishimba (Arlecchino), Elena Gigliotti (Euphrosine), Marisa Grimaldo (Cléanthis) e Andrea Di Casa (Trivellino). E al termine, tra gli applausi, risultava impressionante, mentre sul palcoscenico lei s’inchinava a ringraziare, la somiglianza di Irina Brook col padre. Sì, in tutti i sensi vale la definizione del teatro che lo stesso Strehler mi diede una volta: «È lo stare dell’uomo con l’uomo».
Enrico Fiore