E Luca Cupiello finisce nella mangiatoia

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti (Eduardo/Luca Cupiello) in una scena di «Natale in casa Cupiello»

Monica Piseddu (Concetta) e Francesco Manetti (Eduardo/Luca Cupiello) in una scena di «Natale in casa Cupiello»

Sui personaggi, schierati al proscenio come quelli in cerca d’autore di Pirandello, cala una gigantesca stella cometa. E subito dopo – al centro della fila l’Eduardo/Luca Cupiello che traccia nell’aria il gesto di scrivere – gli attori prendono a interpretare, insieme, non solo le battute ma anche le didascalie che costituiscono e illustrano, appunto, i loro rispettivi personaggi.
È la scena iniziale (la connotano, in pari tempo, la proverbialità e l’allusività) dell’allestimento di «Natale in casa Cupiello» che il Teatro di Roma propone all’Argentina per la regia di Antonio Latella. E si tratta, dunque, di un gioco di specchi fra l’idea e la sua traduzione nella scrittura, ovvero fra la vita e la sua rappresentazione sul palcoscenico: un gioco, praticato alternativamente nei modi e coi ritmi della sceneggiata o del rap, che si spinge, nientemeno, a nominare perfino i segni d’interpunzione e il tipo di accento, grave o acuto, posto sulle vocali.

Antonio Latella

Antonio Latella

Ecco perché, poi, gli attori sono mascherati sino al momento in cui «si perdono» definitivamente nei personaggi che interpretano. E insomma, s’invera perfettamente, nella circostanza, il parallelo, che già ho avuto modo di sottolineare, fra «Natale in casa Cupiello» e l’«Enrico IV», giusto di Pirandello: ossia tra il presepe e il ruolo dell’imperatore medievale, entrambi simbolo della Forma – per sempre data e per sempre riconoscibile – nella quale l’uomo tenta disperatamente d’imprigionare la disgregazione continua e la crudele imprevedibilità della vita.
Assume un significato decisivo, allora, la citazione dell’aria di Basilio «La calunnia è un venticello». Non dipende, ovviamente, solo dal fatto che «Il barbiere di Siviglia» è citato nel testo. Dipende soprattutto dal fatto che il melodramma è la Forma chiusa per eccellenza. E non a caso a cantare quell’aria è il dottore, colui, cioè, che constata come Luca Cupiello sia ormai prossimo alla morte.
Di qui, sulla stessa linea, l’ossessiva reiterazione della voce registrata di Eduardo che pronuncia la battuta: «Mò miettete a fa ‘o Presebbio n’ata vota…». E di qui, ancora, l’Eduardo che, chiuso in una gabbia, continua parossisticamente a scrivere sulle sue pareti di vetro.
In breve, qui i personaggi si trasformano in un equivalente delle serve di Genet secondo la lettura che ne diede Sartre: «ciascuna di esse non vede nell’altra che sé stessa distante da sé». Mentre il cieco che si tiene costantemente stretto al petto uno scimmiotto trasmette l’assurdità estrema di una simile, inane coazione a ripetere.

La scena finale di «Natale in casa Cupiello» secondo Latella

La scena finale di «Natale in casa Cupiello» secondo Latella

Il tutto, infine, si riassume ed esalta nella sconvolgente sequenza conclusiva. Il letto in cui muore Luca Cupiello, assistito da una Concetta in vesti di santa da pittura devozionale, diventa una mangiatoia. Ho pensato al Vangelo, a quello – manco a dirlo – di Luca: «E partorì il figliuolo suo primogenito, (…) e lo pose a giacere in una mangiatoia» (II, 7).
Così, Latella riproduce e potenzia il dettato dell’ultima didascalia di Eduardo: che dice come lo sguardo di Luca Cupiello morente si perda nella visione di «un Presepe grande come il mondo» e di «un Gesù Bambino grande grande». Latella, puramente e semplicemente, identifica Luca Cupiello con quel Bambino; e, l’ennesima folgorante invenzione, ricopre interamente il suo corpo, nella mangiatoia, con un tappeto di foglie di lattuga a disposizione di un bue e di un asinello veri.
Adesso è davvero superfluo attardarsi sulla bravura degl’interpreti. Mi limito a citare i protagonisti Francesco Manetti (Luca Cupiello), Lino Musella (Tommasino), Monica Piseddu (Concetta), Michelangelo Dalisi (Pasquale) e Valentina Vacca (Ninuccia). E piuttosto, aggiungo che non avevo mai visto un allestimento di commedie di Eduardo così radicalmente innovativo e, tuttavia, così fedele al testo originale. Voglio dire questo, in poche parole: qui vien fuori tutta la ferocia che in precedenza non era mai salita in superficie (durante la sequenza citata Tommasino compie addirittura il gesto di soffocare il padre con un cuscino!) e, contemporaneamente, arrivano puntualissime tutte le risate «scritte a copione».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

(«Il Mattino», 7 dicembre 2014)

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