Gemito il pazzo fra Viviani, Savinio e il realismo

Angela Pagano e Claudio Di Palma ne «Il genio dell'abbandono» (foto di Marco Ghidelli)

Angela Pagano e Claudio Di Palma ne «Il genio dell’abbandono» (foto di Marco Ghidelli)

NAPOLI – «Sono le sei del mattino. Nella stanza la luce si perfeziona tra il letto e le riggiole con strani movimenti di difesa. Qualcuno gli passa la mano sugli occhi oscurandoli e lui resta intrappolato in una notte soggettiva. Cadono le mura di casa. Attraverso gli squarci appare la città incollata al trèmolo del mare. Il vento vince su tutto con un suono umano».
È un passo de «Il genio dell’abbandono», il romanzo di Wanda Marasco dedicato a Vincenzo Gemito e ora tradotto in uno spettacolo che lo Stabile di Napoli presenta al San Ferdinando per la regia di Claudio Di Palma. Descrive la morte dello scultore; e, leggendolo, ho subito pensato  a Raffaele Viviani, al quale Gemito fece il ritratto chiedendogli – in cambio, come racconta la Marasco, di qualche tregua durante la fatica della posa – la recita di pezzi del suo teatro.
Gemito, sempre a detta del romanzo della Marasco, in vista della morte stette per alcuni minuti immobile su una sedia davanti alla finestra. E di Viviani si narra che, avvicinandosi la morte, tacque per dodici ore; e poi, un attimo prima spirare, ruppe in un grido altissimo: «Arapite ‘a fenesta, faciteme vede’ Napule!». Entrambi, Viviani e Gemito, sentirono Napoli come un incubo, da ritrarre senza mediazioni intellettualistiche di sorta.

Wanda Marasco

Wanda Marasco

Ma, naturalmente, non accosto Viviani a Gemito solo sulla base di questo parallelismo, bensì, e specialmente, in ordine al fatto che – come dimostra il passo citato – la lingua della Marasco somiglia moltissimo (ed è il suo pregio straordinario) a quella vivianea: una lingua costitutiva e non semplicemente connotativa, capace, contemporaneamente, di un realismo estremo e del sistematico slittamento di quel realismo in una dimensione altra, vale a dire astratta e simbolica.
Perciò, si capisce, soltanto una lingua del genere poteva descrivere la vita di Gemito: «una vita doppia», dice la Marasco, «abbattuta e cenciosa da una parte, preziosa e purissima dall’altra». E accanto al rimando a Viviani, riscontro ne «Il genio dell’abbandono» quello ad Alberto Savinio. E non tanto, ovviamente, al Savinio biografo, che in «Narrate, uomini, la vostra storia» tracciò, fra gli altri, per l’appunto un ritratto di Gemito, quanto, e segnatamente, al Savinio compositore, il Savinio che sperimentò, come scrisse in «Capitano Ulisse», «tutte le possibilità dell’ottava». Il Savinio per il quale, spiegò, «Restava l’illusione di un’ottava più vasta, più sottile. Ma i quarti di tono sono fuori della musica, fuori dal mondo. Una tremenda sete mi ardeva di nuove porte aperte. Ma il quarto di tono non è una porta: è un buco onde si casca nel vuoto. La musica perde il suo sguardo di musica, si squaglia in una sonorità opaca che dà la nausea e il capogiro, in un gioco da sordomuti, in un passatempo da marziani che vivono nel gelo di un pianeta vecchissimo».

Vincenzo Gemito al lavoro sul busto di Viviani

Vincenzo Gemito
al lavoro sul busto di Viviani

Non è lo stesso delirio, non è la stessa tensione verso l’«oltre» che, per Gemito, s’incarnarono nella follia? E qui, dunque, si pone il problema costituito dallo spettacolo in scena al San Ferdinando.
Ne «Il genio dell’abbandono» s’alternano il racconto in prima persona (spesso, ripeto, sotto forma d’incubo) e quello in terza persona (altrettanto spesso sotto forma d’indagine storico-psicologica). E come far passare una simile alternanza dalla pagina scritta al palcoscenico, su cui, inevitabilmente, il flusso di coscienza viene reso impossibile dalla presenza del corpo dell’attore? Come, d’altra parte, riprodurre sul palcoscenico il mélange lirico-barocco (e a tratti persino futurista) di passi come il seguente: «C’era una coerenza triste tra le cose, che non poteva durare, un fumo sopra le ali degli uccelli, un’aria ferroviaria tra cielo e mare, di vagoni, corpi, anime e radici in partenza, spiriti intercettati mentre recingevano tutti i riflessi e gli addii possibili»?
Insomma, le parole scritte della Marasco inverano, rispetto al loro trasferimento sul palcoscenico, quanto constatò Hofmannsthal nella lettera spedita il 18 giugno 1895 al guardiamarina E. K.: «Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a sé del tutto indipendente, come il mondo dei suoni». Giacché sulla pagina scritta le parole son fatte di lettere, ossia di segni, per l’appunto astratti, che in quanto tali possono liberare un alone di significati pressoché infinito.
Sul palcoscenico, invece, quelle parole diventano tali da ricordarci che Foucault individuò in Don Chisciotte la cartina di tornasole della frattura determinatasi nell’età moderna fra la letteratura e il mondo proprio apparentando l’antieroe cervantino a un «lungo grafismo magro come una lettera». Giacché, insisto, sul palcoscenico c’è la concretezza invincibile e insuperabile del corpo dell’attore, in bocca al quale le parole possono essere soltanto suono, quel suono che traduce soltanto quel significato.

Alberto Savinio

Alberto Savinio

È inevitabile, voglio dire ancora una volta, che, trasferite sul palcoscenico, le parole scritte di un romanzo precipitino nel realismo, laddove il teatro non può essere che il regno del simbolo. E venendo a «Il genio dell’abbandono» che si replica al San Ferdinando, in merito a tutto quanto sopra faccio due soli esempi. Giustamente Claudio Di Palma sottolinea, nelle sue note di regia, come Gemito, nel romanzo della Marasco, definisca «cella mentale» la propria condizione di prigioniero della psiche. Ma se si tratta di una cella «mentale», non me la puoi far vedere. Se me la fai vedere, come accade con la gabbia in cui si risolve l’impianto scenografico di Luigi Ferrigno, diventa una cella e basta. E i demoni e i fantasmi che nel romanzo della Marasco abitano quella cella «mentale», se me li fai vedere, si riducono, come accade nella circostanza, a banali teste d’uccello dal becco adunco montate su un’asta.
Allo stesso modo, Di Palma, nel ruolo di Gemito, fornisce, sì, una prova tecnicamente apprezzabile, ma le convulsioni della sua testa e il tremore delle sue mani sono una scontata e assai riduttiva mimesi della follia così come viene proverbialmente immaginata, ben altro che la follia come splendidamente e terribilmente prorompe dalle pagine della Marasco. E sempre nella dimensione del bozzetto realistico si collocano i personaggi con i quali Gemito interagisce, d’altronde in maniera non facilmente comprensibile per chi non abbia letto il romanzo. Fra i migliori dei loro interpreti segnalerei Alfonso Postiglione (Antonio Mancini), Francesca De Nicolais (Peppinella Gemito) e Lucia Rocco (Nannina Cutolo).
Lascio volutamente per ultima Angela Pagano, qui nel ruolo di Giuseppina Baratta, la madre adottiva di Gemito. E la lascio per ultima giacché assumo la sua prova come emblema dell’intero spettacolo: da una parte la sapienza inarrivabile degli sguardi e dei gesti (equivalente della scrittura di Wanda Marasco) e dall’altra la frequente indistinguibilità delle parole che pronuncia (equivalente dell’impotenza di quella scrittura in termini teatrali).

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *