«Le vite degli altri» dopo la caduta del Muro

Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi in un momento di «Enigma», in scena al Nuovo fino a domenica

Ottavia Piccolo e Silvano Piccardi in un momento di «Enigma», in scena al Nuovo fino a domenica

NAPOLI – Mentre assistevo a «Enigma» – il testo di Stefano Massini che Arca Azzurra Teatro e Ottavia Piccolo presentano al Nuovo in un allestimento firmato da Silvano Piccardi – ho pensato a Leopardi, il Leopardi de «L’Infinito». Perché il testo di Massini funziona esattamente come la celeberrima «siepe»: che, sì, «da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude», ma contemporaneamente, e proprio dal momento che esiste, consente di fingersi nel pensiero «interminati / spazi di là da quella, e sovrumani / silenzi, e profondissima quiete».
Qui la «siepe» leopardiana diventa il muro di Berlino. Vent’anni dopo la sua caduta s’incontrano Ingrid Winz e Jakob Hilder, insegnanti l’una di storia e l’altro di matematica. Entrambi hanno vissuto nella DDR e adesso s’incontrano perché Jakob, dopo averla investita con l’auto mentre Ingrid era in bicicletta, la porta a casa sua per prestarle le cure del caso. Ma, prima, era comparsa sul fondale, sotto il titolo «Enigma», la scritta «Niente significa mai una cosa sola». E, nel prologo, Ingrid aveva detto: «Per quelli come me – che come me abitavano un tempo a Berlino Est – la più grande novità dopo la caduta del Muro fu la diversità. Nessuno più uguale a nessuno. Niente più uguale a niente. E io? Fumo le mie cinque sigarette, sempre allo stesso tavolino, lo stesso caffè della Ostbanhof e mi domando ancora: è solo follia rendere i diversi più uguali?».
Eccolo, il muro di Berlino che funziona come la «siepe» di Leopardi. Quando esisteva, nello stesso tempo impediva di vedere che cosa effettivamente accadeva nella DDR e consentiva d’immaginare, appunto, che là il regime di Honecker avesse instaurato l’eguaglianza; ma, quando quel muro cadde, l’immaginazione non ebbe più alcuna ragion d’essere, e si scoprì che, in realtà, tutti i tedeschi – i tedeschi dell’Est e i tedeschi dell’Ovest – non erano che delle monadi, ciascuna con una propria invalicabile fisionomia.

Stefano Massini (foto di Attilio Marasco)

Stefano Massini
(foto di Attilio Marasco)

A parte questo, il pregio non comune del testo di Massini, che con «Enigma» si conferma come uno degli autori italiani di più alto rango, viene annunciato e sottolineato dalla battuta che, sempre nel prologo, pronuncia Hilder: «Storia non è una parola. È carne. Perché ogni volta che la storia gira pagina, si apre una ferita. E quella ferita sta nell’avere un prima e un dopo. Cosa facevi prima. Cosa credevi prima. Cosa volevi prima. Ogni volta che la storia cambia direzione c’è sempre un prima, che pesa cento volte più del dopo. In quei momenti gli uomini muoiono e al tempo stesso rinascono: nuovi. Ma il cadavere di chi erano – prima – gli resta sempre addosso».
In breve, ci abbia pensato o no Massini, mi sembra che il dato formidabile di «Enigma» stia nel fatto che ci costringe, noi spettatori, nella stessa situazione di Gerd Wiesler, il capitano della Stasi protagonista del film «Le vite degli altri». È incaricato, come sappiamo, di spiare Georg Dreyman, uno scrittore sospettato d’essere pericoloso per il regime. E il suo «muro» (o la sua «siepe» che dir si voglia) sono le cuffie che indossa per ascoltare ciò che si dice nella casa di Dreyman: gli consentono, per l’appunto, soltanto di poter immaginare quanto non può vedere.

Ulrich Mühe in «Le vite degli altri»

Ulrich Mühe in «Le vite degli altri»

Così noi spettatori/Wiesler, indossando le «cuffie» dell’attenzione costante a cui ci costringe la sapiente drammaturgia di Massini, a poco a poco, immaginando, finiamo per scoprire che siamo al cospetto di un rapporto speculare: in realtà, Jakob Hilder si chiama Markus Lothar, e nella DDR era l’osservatore incaricato di approntare il fascicolo informativo su quella Ingrid Winz che, a sua volta, si chiama in realtà Katharina Braumm e ha provocato l’investimento per consegnare a Lothar il fascicolo che dopo la caduta del muro di Berlino ha via via approntato su di lui.
Del resto, c’è una battuta inequivocabile (la pronuncia la stessa Ingrid/Katharina) che rimanda al film di von Donnersmarck: «Prima che andasse giù il Muro… lo sapevamo, tutti, che esistevano i fascicoli. Il fatto che quasi nessuna vita, in Germania, potesse andare avanti senza che qualcun altro chissà dove – in quale ufficio – lo sapesse». E tanto viene esaltato, al punto giusto, dallo spettacolo in sé, grazie alla regia di Piccardi, che governa con la sagacia e la leggerezza dovute il meccanismo da thriller messo in campo dall’autore, e alla prova attorale maiuscola dello stesso Piccardi e di un’Ottavia Piccolo capace di esprimere, senza parere, sinanche i più infinitesimali mutamenti psicologici del suo personaggio.
D’altronde, lei ha con Massini un rapporto privilegiato. Basterebbe ricordare le sue strepitose interpretazioni in «L’Arte del Dubbio» e, soprattutto, nello splendido «Processo a Dio». E chiudo dicendo che Massini è l’autore di rango che è perché, pur affrontando, come in questo caso, temi di straordinaria attualità, si mantiene sempre collegato con le grandi espressioni concettuali del maggiore teatro classico. Qui, infatti, invera l’acutissima analisi, che non mi stancherò mai di citare, sviluppata da Szondi a proposito di Ibsen: viviamo in un presente che «si limita a essere un pretesto per l’evocazione del passato».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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4 risposte a «Le vite degli altri» dopo la caduta del Muro

  1. Raffaele Mastroianni scrive:

    Uno spettacolo di gran livello. Materiale su cui riflettere. Attori di grandissima qualità. Misura, classe, buon gusto.
    Però, almeno alla “prima”, il teatro, peraltro di contenuta capienza, mostrava ampi vuoti.
    Stavolta, evidentemente, il teatro di parola non ha spostato le masse.
    Lei dice che il teatro somiglia sempre più a un museo, ma io temo somigli sempre più a un’appendice della peggiore televisione di basso profilo o dei livelli di potere mediatico.
    Fin quando potremo avere spettacoli come questo, belli, curati, pensati?
    Fin quando grandi attori accetteranno questa marginalità instabile per far cultura e pensiero?
    Stiamo andando verso la sconfitta?
    Raffaele Mastroianni

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Mastroianni,
    credo anch’io che la partita – non solo per il teatro, ma per molte altre cose: il giornalismo, l’università, il libro… – sia sul punto d’essere persa. Ma non è ancora persa, come, per l’appunto, dimostra lo spettacolo in scena al Nuovo. E allora bisogna resistere, sia pure in pochi, e, se la partita dovesse essere effettivamente persa, attrezzarsi per reclamare e affrontare la rivincita. Ciò che significa, soprattutto, trovare altre forme di coinvolgimento.
    Enrico Fiore

  3. Gabriele Riegler scrive:

    Poco da aggiungere alla recensione e al sottoscrivibile commento del Signor Mastroianni. Con questo testo intrigante e con questa grande prova di attori ho rimosso lo stato confusionale determinatomi dalla visione dell’Ibsen targato Timi!
    Gabriele Riegler

  4. Enrico Fiore scrive:

    Hai visto, Gabriele? Ogni tanto il teatro è capace pure di qualche miracolo: stavolta ha ribaltato il proverbio secondo cui la moneta cattiva scaccia quella buona…
    Enrico Fiore

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