«Una casa di bambola» che sembra l’albergo di Feydeau

Filippo Timi e Marina Rocco nell'allestimento di «Una casa di bambola» proposto al Bellini fino a domenica

Filippo Timi e Marina Rocco nell’allestimento di «Una casa di bambola» proposto al Bellini fino a domenica

NAPOLI – L’ho detto e lo ripeto. Il teatro va somigliando ogni giorno di più a un museo, in cui – salvo prestiti occasionali – sono esposti sempre gli stessi quadri. E i cartelloni, sia quelli degli Stabili sia quelli delle sale private, ce ne forniscono continue conferme. Per esempio, lo Stabile di Genova propone dalla fine di questo mese, con la regia di Marco Sciaccaluga, «Il gabbiano» di Cechov che già era stato nell’aprile dell’anno scorso alle Fonderie Limone di Moncalieri (con la regia di Ostermeier) e quattro mesi dopo alla Biennale Teatro (con la regia di Koršunovas). E adesso il Bellini ci propone, in un allestimento coprodotto dal Teatro Franco Parenti e dalla Fondazione Teatro della Toscana per la regia di Andrée Ruth Shammah, «Casa di bambola» di Ibsen che già avevamo visto al Mercadante, appena dieci mesi fa, in un allestimento prodotto dallo Stabile di Napoli per la regia di Claudio Di Palma.
Sono, dunque, perfettamente autorizzato a riproporre a mia volta l’analisi del testo ibseniano che sviluppai, per l’appunto, in occasione dello spettacolo firmato da Di Palma.
Per inquadrare «Casa di bambola» (ma Shammah l’intitola «Una casa di bambola») non si può non partire dalla decisiva osservazione di Szondi: «In Ibsen il problema è quello di rappresentare il passato, vissuto interiormente, in una forma letteraria che conosce l’interiorità solo nella sua oggettivazione, e il tempo solo nel suo momento di volta in volta presente; ed egli lo risolve inventando situazioni in cui gli uomini seggono a giudici del loro passato ricordato, e lo portano così alla luce aperta del presente».
Infatti, lungo l’intero arco dei tre atti di quel dramma la vita viene continuamente evocata e invocata: come desiderio fanciullescamente esibito (vedi l’esclamazione di Nora: «Ah, sì, sì! Come è splendido vivere ed esser felici!»), come stanca abitudine (vedi il «Bisogna vivere» della signora Linde) o, infine, come inutile condanna (vedi la battuta del dottor Rank: «Già, è opinione molto diffusa che vivere sia necessario»). Ma poi, in realtà, al posto della vita s’accampa un presente che, per ripetere ancora le parole di Szondi, «si limita a essere un pretesto per l’evocazione del passato». E il futuro stesso resta affidato all’improbabile ipotesi del «meraviglioso», di un «prodigio» – nella fattispecie «la convivenza che diventa matrimonio» – in cui, peraltro, non si crede più.

Henrik Ibsen

Henrik Ibsen

Nel mettere in scena «Casa di bambola» occorre, quindi, cancellare l’eclatante naturalismo che in Ibsen traduce la crisi storica del dramma in quanto portato della crisi della borghesia; e, soprattutto, occorre bandire qualsiasi lettura in chiave razionalista e, peggio, femminista del personaggio di Nora. E questo fece un signore che si chiamava Ingmar Bergman: il quale era non soltanto un grandissimo regista, ma anche e soprattutto un grandissimo regista che, in ragione di «affinità elettive» operanti da sempre (basta considerare «Il posto delle fragole»), conosceva Ibsen meglio di se stesso.
Invece, Andrée Ruth Shammah, che avevo appena finito di elogiare per la sua attenta e precisa regia de «Il lavoro di vivere» di Hanoch Levin, punta proprio sul femminismo, tanto che fa interpretare allo stesso attore (Filippo Timi) i personaggi di Helmer, Krogstad e Rank. Come a dire: gli uomini son tutti uguali, uno solo li vale tutti. E se non è femminismo questo…
Ma, prima di procedere oltre, occorre mettere in chiaro due cose. Non è vero che, come afferma il Teatro Franco Parenti, la traduzione qui utilizzata è della stessa Shammah. La traduzione qui utilizzata è, sostanzialmente (al punto che nel copione ne vengono riprese, alla lettera, persino le didascalie), quella storica di Anita Rho pubblicata per «I Millenni» Einaudi nell’anno di grazia 1959. E non è vero che, come ha dichiarato Timi ai giornali, «il testo di Ibsen è salvo». Il testo di Ibsen qui risulta notevolmente e pesantemente manomesso, mediante tagli e, quel ch’è peggio, battute inventate di sana pianta: a cominciare da quella («Giudizio… Nora») che pronuncia la bambinaia Anne Marie nel momento in cui la protagonista regala il resto al fattorino e che – collocata nella prima scena, e perciò in posizione fortemente icastica – si pone nei termini di una premeditata e proditoria epigrafe circa il carattere ribelle di Nora che la Shammah assume quale chiave della sua regia.
Senonché, poi, lo spettacolo diventa una cosa del tutto diversa. Si trasforma inopinatamente in una sorta di vaudeville (e certo richiamano «L’albergo del libero scambio» di Feydeau quelle porte piazzate l’una accanto all’altra dallo scenografo Gian Maurizio Fercioni), con escursioni frequentissime nella farsa, nel cabaret o – ancora una contraddizione – nel melodramma. Vedi i reiterati siparietti di quella Anne Marie che se n’esce di continuo con sentenze e proverbi (anch’essi, ovviamente, inventati) tipo «Se semini menzogne raccogli lacrime», «Riempire di mastice i fori di un’asse tarlata per far sembrare la superficie liscia come marmo» e «Il fumo non sempre dimostra la presenza del fuoco».
Sono sentenze e proverbi tutti diretti, evidentemente, contro Nora. Ma non s’era schierata, la Shammah, preventivamente e totalmente a favore di quest’ultima? E come fa a fare la bambinaia quella Anne Marie agghindata e atteggiata come una strega-zombi? C’è il rischio concreto che i bambini da lei accuditi bisogna poi portarli di corsa da uno psicoterapista.

Mariella Valentini è la signora Linde

Mariella Valentini è la signora Linde

Battute (ma non tanto) a parte, resta uno spettacolo che dura la bellezza (si fa per dire) di tre ore. Per effetto delle lungaggini determinate da gag e pantomime come le seguenti: la ninna nanna di Brahms cantata e ricantata, le continue smancerie sentimentalistiche, la sonata di Händel eseguita all’arpa dalla figlia di Helmer e di Nora (che qui viene chiamata Hedvig mentre nel testo di Ibsen si chiama Emmy ed è una bambina), i servi che stanno sempre a spiare, la Nora che attira Rank sul divano strusciandogli addosso una coscia nuda, la tarantella ballata prima da Helmer e poi da Nora, la scarica di baci sulla bocca dati dalla signora Linde a Krogstad e, per terminare con gli esempi, le passeggiate davanti al velatino che chiude il boccascena.
Sono tutte invenzioni che, lo ripeto, con il dramma di Ibsen non c’entrano assolutamente nulla. E per quanto riguarda gl’interpreti, accanto a Marina Rocco, la quale presta a Nora una vocetta infantile che rimane uguale dall’inizio alla fine, e a Mariella Valentini, una signora Linde disciplinata quanto basta, si esibisce un Timi che gigioneggia senza posa e senza remore, strizzando continuamente l’occhio agli spettatori e, in pratica, invitandoli esplicitamente a ridere. E siccome ieri sera il pubblico del Bellini era composto per la gran parte di ragazzi delle scuole che, appunto, non volevano far altro che ridere, alla fine, all’acme del dramma, quando Helmer viene abbandonato da Nora, Timi s’è messo a ridere anche lui, al proscenio e senza riuscire a trattenersi per più di un minuto, con le mani in faccia.
Concludo parafrasando la domanda che rivolsi ad Andrée Ruth Shammah in calce alla recensione dell’allestimento de «Gl’innamorati» di Goldoni da lei diretto: ieri sera che cosa hanno capito quei ragazzi che si sganasciavano dalle risate, se non che Ibsen è una specie di Scarpetta che ha scritto una specie di «Miseria e nobiltà» ambientata in Norvegia?

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

4 risposte a «Una casa di bambola» che sembra l’albergo di Feydeau

  1. Paolo Gabriellini scrive:

    Sposo al 100% la sua recensione, anche perché ho avuto l’occasione di vedere due regie della Shammah in rapida successione (“Il lavoro di vivere” di Levin e questa) e stento a credere che la stessa mano abbia potuto produrre due esiti così differenti e contrastanti. L’idea di togliere la polvere dal testo di Ibsen, semmai ve ne fosse stata, e virarlo su toni più lievi, “confettati”, poteva avere un senso se ben sviluppata, ma nel quadro di questa messinscena la centralità di Nora va presto a farsi benedire, cedendo il passo a tre figure maschili che Timi non riesce a caratterizzare adeguatamente (solo cambi di postura, stessi accenti, stessa cantilena, a sottolineare l’unicità di toni della protervia maschile ma, anche, l’incapacità di un istrione poco a suo agio in uno schema di teatro tradizionale). Dove, poi, affiorano smorfie, “a parte”, strizzatine d’occhio e tarantelle, innesti arbitrari e altre amenità, Ibsen si rivolta nella tomba e il gioco mostra la corda. Divertente la balia “en travesti”, pulita ma monotona la Rocco, di maniera gli altri, tra errori e dizione meneghina (ah, le scuole di teatro…).
    Paolo Gabriellini

  2. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Signor Gabriellini,
    siamo d’accordo al 100%, allora. E se fino a tal punto coincidono il parere del critico e quello dello spettatore, significa che l’allestimento di “Casa di bambola” diretto dalla Shammah è davvero da dimenticare. Ciò che non possiamo dimenticare, invece, è che simili sconci sono finanziati col danaro pubblico, cioè col danaro che viene dalle tasche dei cittadini, dalle nostre tasche. E sarebbe ora che ai teatranti venisse impedita ogni “impresa” del genere.
    Enrico Fiore

  3. Gabriele Riegler scrive:

    Pur con tanti anni da spettatore alle spalle, non avevo mai visto “Casa di bambola”; e, amante di Ibsen e con la memoria al discusso film di Losey, avevo approcciato lo scorso anno l’edizione di quel dramma prodotta dal nostro Stabile e che, con Gaia Aprea protagonista e la regia di Claudio Di Palma, mi era sembrata un onesto allestimento. Poi, attratto dal nome della regista e curioso di vedere come Timi entrasse nei ruoli dei personaggi maschili tutti assegnati a lui, ho assistito anche a questa pietosa performance: altro che le regie di Barberio Corsetti che avevano imbrigliato quest’attore. Nelle fatidiche note di regia la Shammah ammette di aver voluto dare briglia sciolta a Timi, ma forse in locandina andava scritto: “regia Filippo Timi”. Dov’è finita la psicologia di Nora, che inizia a modificarsi subito dopo che lei ha rivelato all’amica i sacrifici fatti per salvare il marito? Dov’è la psicologia di Helmer, austero bancario calato nell’ottica temporale in cui si svolge l’azione? E quale effetto educativo ha sui giovani diffondere l’idea che Ibsen è un autore sorpassato perché, tanto, oggi abbiamo Salemme e Siani per farci due risate?
    Caro Enrico, ti dirò che dopo questa oscenità ho rivalutato il nostro allestimento: Stabile di Napoli batte Franco Parenti di Milano 4-0.
    Gabriele Riegler

  4. Enrico Fiore scrive:

    E’ vero, caro Gabriele, non tocchiamo mai il fondo. Anche il teatro ci riserva sempre qualcosa di peggio.
    Enrico Fiore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *