Un Giulio Cesare donna tra microfoni, Tai Chi e uomini-lupo

Michele Riondino e Maria Grazia Mandruzzato in una scena di «Giulio Cesare» (le foto dello spettacolo sono di Serena Pea)

Michele Riondino e Maria Grazia Mandruzzato in una scena di «Giulio Cesare» (le foto sono di Serena Pea)

NAPOLI – Più di una volta ho incontrato Àlex Rigola a Venezia, quando il regista di Barcellona era direttore della Biennale Teatro. E non mi fu difficile fargli i complimenti per taluni degli spettacoli, molto interessanti, da lui portati al Festival: primo fra tutti (venne dato nell’agosto del 2015 nel Teatro alle Tese) «A house in Asia» dell’Agrupación Señor Serrano, la formazione di suoi concittadini a cui, non a caso, venne assegnato quell’anno il Leone d’Argento per l’innovazione teatrale.
Lo spettacolo era centrato sull’uccisione di Osama Bin Laden, nella sua ultima dimora pachistana di Abbottabad, da parte dei Navy Seals statunitensi. E una delle sequenze rimarchevoli dell’allestimento consisteva nel filmato che mostrava Barack Obama, Hillary Clinton, Joe Biden ed altri mentre, nella «Situation Room» della Casa Bianca, seguivano in diretta per l’appunto la cattura e l’uccisione dello «sceicco del terrore».

Àlex Rigola

Àlex Rigola

Ebbene, sono rimasto non poco sorpreso constatando che un’immagine della stessa sequenza apre l’allestimento del «Giulio Cesare» di Shakespeare firmato da Rigola e che lo Stabile del Veneto presenta al Mercadante. E la sorpresa non è dovuta tanto al fatto che Rigola ha citato una sequenza decisiva di «A house in Asia» (il suo «Giulio Cesare» debuttò un anno dopo, aprendo nel luglio del 2016, al Teatro Romano, la sezione prosa del 68° Festival shakespeariano di Verona), quanto al fatto che ha poi bellamente ignorato le caratteristiche fondanti, e straordinariamente inventive, di quello spettacolo che pure, ripeto, aveva invitato alla Biennale Teatro da lui diretta e ammirato fino al punto di lasciarsene influenzare.
Voglio dire, in breve, che quest’allestimento del «Giulio Cesare» risulta connotato da un déjà vu riproposto in maniera pigra e sostanzialmente noiosa. E il ricordo, dal momento che siamo nell’ambito del teatro di ricerca, corre subito al «Giulio Cesare» della Socìetas Raffaello Sanzio, presentato proprio al Mercadante nell’anno di grazia 1997 e che, nonostante fosse ammantato di forme rivoluzionarie e urticanti, tuttavia rimandava al senso profondo del testo shakespeariano con precisione addirittura filologica. Vale quindi la pena di riassumerlo, quel senso.
Il «Giulio Cesare» appartiene alla fase della produzione shakespeariana dominata dall’«Amleto». E sarebbe sufficiente quest’elementare constatazione ad indicarne, già in via presuntiva, i temi e le atmosfere. Innanzitutto, proprio con il «Giulio Cesare» Shakespeare comincia a considerare la storia non più (o non soltanto) sotto il profilo della semplice cronaca, ma anche (e specialmente) dal punto di vista psicologico. In una parola, scopre Plutarco; e dunque, se di psicologia bisogna parlare, dobbiamo immediatamente accorgerci che qui dilaga un’immedicabile disillusione, ossia la coscienza del fallimento di tutte le certezze e le speranze precedenti: a partire dalla fede nel destino metafisico dell’uomo e nell’ordine costituito, nella fattispecie l’ordine imperiale.

La «rivelazione» che le parole sono una delle armi principali del Potere

La «rivelazione» che le parole sono una delle armi principali del Potere

Assolutamente fondamentale appare, in proposito, la battuta rivolta da Cassio a Bruto: «La colpa non è nelle nostre stelle, ma in noi stessi». E a me torna in mente che Krzysztof Zanussi, anche lui autore di un allestimento del «Giulio Cesare», nel 1986 – parlando a Taormina durante un convegno sul tema «Mettere in scena Shakespeare» – colse in quel dramma «un riferimento all’imperfezione dell’individuo, come fonte del male che, moltiplicato, diventa motore delle forze sociali, le quali impediscono che lo “sviluppo” si trasformi in “progresso”».
Ma, come ho anticipato, non è che rispetto a tutto questo Àlex Rigola si sia fatto venire molte idee. La più eclatante – sullo sfondo di una (superficiale) lettura del testo in chiave di parabola sul Potere – sta nell’assegnazione del ruolo di Giulio Cesare a un’attrice. Col che il regista catalano prende due piccioni con una fava: nel senso che, contemporaneamente, rimanda alla favoleggiata omosessualità dello stesso Giulio Cesare e al fatto che oggi il Potere è incarnato anche da donne. E qui potrei pure fermarmi, giacché, lo vedete, il déjà vu di cui sopra si sposa con una banalità in tutto e per tutto disarmante. Ma, in  proposito, qualche altro esempio si deve comunque proporlo.
Andiamo, per intenderci, dalle camicie bianche e dalle bretelle nere che fanno tanto «Einstein on the Beach» di Robert Wilson (1976) ai travestimenti da lupo («homo homini lupus»!…), dai primi piani degli attori proiettati sul parallelepipedo bianco che funge da fondale alle reiterate sequenze in cui gli attori medesimi si esibiscono dietro un microfono. E c’è da aggiungere che, tanto per non farsi mancare niente, Rigola accoppia il déjà vu e la banalità con una non meno straripante confusione.

La «precisazione» che il «Giulio Cesare» è ambientato nell'antica Roma

La «precisazione» che il «Giulio Cesare» è ambientato nell’antica Roma

Alla citata immagine della «Situation Room» (accompagnata da una didascalia, ovviamente riferita a Obama, in cui ci si chiede se possa un Premio Nobel per la Pace ordinare l’esecuzione di qualcuno) segue quella del piccolo Aylan riverso sulla spiaggia di Bodrum. E mentre gli uomini-lupo si danno a una zuffa furiosa che ben presto si tramuta in un immemore «pogo», lo stile di «danza» tra il punk e l’heavy metal, sul parallelepipedo-fondale scorrono alla rinfusa le facce, poniamo, di Hitler, di Stalin, della Merkel, di Mussolini, di Berlusconi, di Bush e di Putin. E non mancano le sequenze splatter. E sempre sul parallelepipedo-fondale compaiono le scritte «WORDS» (per rivelarci che una delle principali armi del Potere sono per l’appunto le parole), «WAR» (per ricordarci che la vicenda in questione culminò nella carneficina di Filippi) e «SPQR» (per ricordarci, fra l’altro in contraddizione con l’assioma registico di un Potere atemporale, che siamo nell’antica Roma). E, nella sequenza conclusiva, vediamo il fantasma di Giulio Cesare che fa il Tai Chi davanti a un cumulo di ossa, retaggio, giusto, della battaglia di Filippi e che, tolte via ad una ad una, lasciano affiorare una sagoma gigantesca dell’Aylan mostrato in foto all’inizio.
Siamo alla sottolineatura della citazione della citazione. E, come potete osservare da voi, non più che andante risulta – in un simile contesto – la prova degl’interpreti, a cominciare da Michele Riondino (Marco Antonio), Maria Grazia Mandruzzato (Giulio Cesare), Stefano Scandaletti (Bruto), Michele Maccagno (Cassio) e Silvia Costa (Porzia).
Chiudo con una riflessione obbligata. Siccome non è possibile che Àlex Rigola si sia improvvisamente rimbecillito, mi sembra evidente che ci troviamo di fronte a una delle tante, e sempre più frequenti, manovre di piccolo cabotaggio venute in auge nell’ormai anch’esso piccolo (e autoreferenziale e alla fin fine virtuale) mondo del teatro. Stavolta si è trattato, per lo Stabile del Veneto, di prendere con una sola fava addirittura tre piccioni: il richiamo per lo spettacolo esercitato dal nome di Rigola, il risparmio delle spese di viaggio e di alloggio per un Rigola che era già a Venezia nelle vesti di direttore della Biennale Teatro e lo sfruttamento del «Giulio Cesare» diretto da Rigola pure per l’inaugurazione, come ho detto, dell’estate teatrale veronese dell’anno scorso. E lui, Àlex Rigola, per il quale il mandato di direttore della Biennale Teatro stava per scadere, ad accettare non ha impiegato nemmeno un attimo: alla sua prima regia italiana, e per la prima volta alle prese con attori italiani, ha rimesso mano (con la sinistra) all’allestimento del «Giulio Cesare» dato nel lontano 2002 a casa propria, nel Teatre Lliure di Barcellona.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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