Minetti, l’attore di Bernhard che aspetta Godot

Eros Pagni e Daniela Duchi in una scena di «Minetti» (le foto dello spettacolo sono di Bepi Caroli)

Eros Pagni e Daniela Duchi in una scena di «Minetti» (le foto dello spettacolo sono di Bepi Caroli)

NAPOLI – Nel primo mese dell’anno ho visto due allestimenti di testi di Thomas Bernhard: all’Arena del Sole di Bologna quello di «Prima della pensione» firmato da Elena Bucci e Marco Sgrosso e adesso, al Mercadante, quello di «Minetti», presentato dallo Stabile di Genova per la regia di Marco Sciaccaluga. E ne ho tratto l’ennesima prova, ove mai ce ne fosse bisogno, che Bernhard è un grande scrittore in generale e, in particolare, uno dei più importanti drammaturghi contemporanei.
Lo è perché, come tutti i grandi scrittori e i grandi drammaturghi, svolge sempre gli stessi temi ma li svolge in maniera sempre diversa. E in quanto drammaturgo, è, dunque, un attore. Giacché un attore può dire la stessa battuta per una vita intera, sera dopo sera, e tuttavia non la dirà mai allo stesso modo: sera dopo sera quella battuta sarà la stessa e, contemporaneamente, sera dopo sera sarà diversa. E tanto più decisivo risulterà tutto questo se, come nel caso di Bernhard, s’identificherà perfettamente con le trame ideate e con la scrittura adottata per svilupparle, al punto che l’insieme costituito da quelle trame e da quella scrittura s’identifichi a sua volta con la Weltanschauung, la concezione della vita e del mondo propria dell’autore.
Insomma, voglio dire che – di conseguenza, e a parte i non pochi (e spesso impietosi) riferimenti diretti e concreti al teatro riscontrabili nei testi dell’Austriaco – tutti i personaggi di Bernhard, nessuno escluso, sono degli attori. E basta, in proposito, considerare la situazione – centralissima, rispetto all’opera complessiva di quell’autore – che s’accampa ne «La forza dell’abitudine».
Caribaldi, il direttore di un piccolo circo, impone a se stesso e ai suoi compagni (i personaggi, ovviamente e a vario titolo simbolici, del pagliaccio, del giocoliere, del domatore e della funambola) di provare continuamente il «Quintetto della trota» di Schubert. Ma ormai provano (anzi, provano a provare) da ventidue anni, e quel brano non sono ancora riusciti ad eseguirlo. L’hanno impedito, e continueranno ad impedirlo, accidenti vari, divagazioni, distrazioni, presunti o reali malanni fisici e, specialmente, un fiume limaccioso di parole ricorrenti, uguali, dall’inizio alla fine.
Eccoli, allora, i temi fondamentali di Bernhard: la circolarità coatta dell’esistenza, che soltanto la morte può spezzare, e la vita sentita, giusto, unicamente come abitudine e, peggio, fardello tanto rifiutato quanto inevitabile. Infatti, la vera battuta-chiave de «La forza dell’abitudine» è la seguente: «Noi non vogliamo la vita, eppure la si deve vivere». E, del resto, la circolarità coatta dell’esistenza di cui sopra s’identifica perfettamente, come dicevo, con la struttura, la forma e il ritmo del testo: improntato a sua volta a una strenua circolarità, e dunque fittamente tramato di locuzioni, e soprattutto di singole parole, che ininterrottamente compaiono e ricompaiono.
Date queste premesse, immaginiamoci, quindi, che cosa può accadere (o, meglio, che cosa può non accadere) in un testo come «Minetti», centrato su un attore vero, un attore di professione: appunto quel Bernhard Minetti che, morto nel ’98 a novantatré anni, fu il più grande attore tedesco del dopoguerra.

Federica Granata è la Signora

Federica Granata è la Signora

Lo incontriamo, il Minetti di Bernhard, nell’atrio di un vecchio albergo di Ostenda. È la sera di San Silvestro e fuori infuria una tempesta di neve. Minetti («Ritratto di un artista da vecchio», recita il sottotitolo della commedia, scritta in versi e composta da tre scene e un epilogo) dice che ha un appuntamento con il direttore del Teatro di Flensburg, per il quale reciterà il «Re Lear» dopo un’assenza dalle scene durata trent’anni. Si ritirò quando, mentre era direttore del Teatro di Lubecca, venne destituito dalla carica e processato per essersi negato «alla letteratura classica». Ma, continua a raccontare l’anziano attore, a Dinkelsbühl, il paesino nascosto sulle montagne bavaresi in cui s’era rifugiato presso sua sorella, non smise mai di recitare, per l’appunto, il «Re Lear»: davanti allo specchio, tutti i giorni brani dell’opera (e specifica: «sempre gli stessi») e il tredici di ogni mese, «sempre puntuale alle otto di sera», l’opera «al completo».
Non solo. In quell’albergo Minetti si presenta con la valigia («nessun viaggio senza questa valigia») in cui porta la maschera fatta da James Ensor per il personaggio di Lear. Ma, naturalmente, il direttore del Teatro di Flensburg (ovverò il suo personale Godot) non arriverà. E nell’epilogo, sulla costa atlantica, Minetti morirà su una panchina, sepolto dalla neve, dopo aver ingoiato «parecchie pillole» e indossato, manco a dirlo, quella maschera. Un epilogo che rimanda, insieme, a due fatti: il fatto che nel «Re Lear» è la finzione che fa da cartina di tornasole per la realtà e il fatto che recitare un personaggio indossandone la maschera significa una recitazione nella recitazione, ossia una recitazione al quadrato.
Tanta aderenza del plot ai temi fondamentali di Bernhard (ripeto: la circolarità coatta dell’esistenza, che soltanto la morte può spezzare, e la vita sentita unicamente come abitudine) trova poi un non meno rilevante corrispettivo in passi del testo assolutamente pregnanti e, credo, fra i più alti della drammaturgia novecentesca. E si tratta – è quasi superfluo sottolinearlo – di passi che attengono non solo all’opera complessiva di Bernhard, ma anche, se non soprattutto, alla nostra vita.

Eros Pagni nella scena finale

Eros Pagni nella scena finale

Comincia la signora con la quale Minetti attacca a parlare appena arriva in albergo. Nella sua prima battuta dice fra l’altro: «San Silvestro me lo sbrigo io / vado a letto con la maschera da scimmia / e aspetto / con la maschera in faccia in testa / l’intera bottiglia di champagne in un sorso solo / questo è il terzo anno ormai / che trascorro San Silvestro in questo modo». Già, la maschera da scimmia vale quella da Lear, in ogni caso recitiamo. E infatti Minetti replicherà: «Noi allestiamo continuamente / una tragedia / o una commedia / quando allestiamo la tragedia / in fondo non è altro che una commedia / e viceversa»; con l’aggiunta della parafrasi: «Per tutta la vita fingiamo / un qualcosa / che nessuno capisce / Però percorriamo questa strada / non un’altra / quest’unica strada / finché moriamo / e per tutta la vita non sappiamo / se è matematica / o se è arte drammatica».
Senza contare le feroci stoccate come la seguente, che sembra proprio rivolta contro la svagatezza immemore del sopravvivere e, anche, di certo evasivo teatro odierno: «Il mondo pretende di essere divertito / e invece va turbato / turbato turbato / ovunque oggi ci volgiamo / null’altro che un meccanismo per divertire […] Nessuno oggi / che si ferisca a morte / noi vegetiamo in una società repellente / che ha cessato di ferirsi a morte». E come emblema del tutto, poi, il tormentone di quel laccio delle mutande lunghe di Minetti che più volte si slega, a tingere di un riso gelido alla Buster Keaton l’ineffettuale stillicidio dell’insignificanza.
Ebbene, mi sembra che Sciaccaluga abbia illustrato tutto questo con una precisione apprezzabile, e non disgiunta dall’inventiva. Scrive fra l’altro nelle note di regia: «Per ogni teatrante “Minetti” è un autoritratto ma anche una commedia che scommette su un’idea provocatoria: mostrare che l’Attore è l’Uomo e che il Teatro si fa autoritratto del Mondo, anche quando entrambi, come in questo caso, raccontano la loro fatale caduta». E come raramente accade, stavolta le note di regia corrispondono all’allestimento.
Nell’impianto scenografico di Catherine Rankl, l’«azione» si svolge in prevalenza su una pedana circolare girevole. Ed accentuate, fino a diventare veri e propri «numeri» di musical o pantomime da entracte, risultano le reiterate corse nell’atrio dei giovani mascherati messi in campo da Bernhard. Si va, per intenderci, dalla canzone iniziale su musica di Andrea Nicolini e versi dello stesso Sciaccaluga (ispirata al Kabarett espressionistico, ricalca una canzone goliardica tedesca e adotta ”un gioco di parole che in italiano suona pressappoco: «Io amo Ostenda perché amo lo sterco») a un siparietto in cui quei giovani compaiono con una maschera riproducente il volto di Shakespeare. Fino all’invenzione del cliente che scambia Minetti per il portiere dell’albergo e del Minetti che accetta l’equivoco consegnandogli tranquillamente la chiave della stanza.
Semplicemente superlativa, infine, la prova di Eros Pagni: com’era facile attendersi, fa di Minetti un autentico paradigma di quanto – la pena, l’orgoglio, l’amarezza, la follia, lo smarrimento – costituisce la nostra umana fragilità. E molto brave, accanto a lui, sono anche Federica Granata (la Signora) e Daniela Duchi (la Ragazza). Ma circa quest’ultima debbo aggiungere una postilla. La vidi per la prima volta nel novembre scorso, al Duse, in un allestimento de «La dodicesima notte», sempre prodotto dallo Stabile di Genova per la regia di Sciaccaluga e nato dall’esercitazione, messa in scena nella stagione 2014-’15, dei dieci giovani attori del Master della scuola di recitazione. Interpretava, Daniela Duchi, i ruoli di Viola e di Cesario. E mi parve subito assai dotata. Sicché, quando l’altra sera l’ho rivista al fianco di Eros Pagni, son rimasto convinto d’aver assistito al passaggio del testimone fra un maestro e un’allieva. Ed è solo garantendo questi passaggi che il teatro può avere un futuro.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *