Per il «tagliatore di teste» l’unica salvezza è l’Alzheimer

 

Francesco Migliaccio in un momento di «Tre alberghi», il testo di Jon Robin Baitz in scena alla Galleria Toledo

Francesco Migliaccio in un momento di «Tre alberghi», il testo di Jon Robin Baitz in scena alla Galleria Toledo

NAPOLI – «Il buffo per me è che mi considerano un po’ come una specie di gentiluomo di campagna che coltiva il suo giardinetto». È questa, credo, la battuta-chiave di «Tre alberghi», il testo dell’autore e sceneggiatore statunitense Jon Robin Baitz che lo Stabile del Friuli Venezia Giulia presenta alla Galleria Toledo in un allestimento firmato da Serena Sinigaglia.
È la battuta-chiave perché la pronuncia Kenneth Hoyle, che di professione fa il «tagliatore di teste»: nel senso ch’è uno degli «executives» che la multinazionale da cui dipende spedisce in giro per il mondo a licenziare quelli che non rendono più o, peggio, hanno capito che la «baby formula» di un latte in polvere destinato alle madri africane non è precisamente qualcosa che giova alla salute.
In breve, la battuta in questione dà perfettamente conto di due cose: l’imperturbabilità che presiede al comportamento dei capi di Hoyle (sono loro che, al Quartier Generale della società, nutrono nei suoi riguardi la considerazione di cui sopra) e l’indifferenza con la quale lo stesso Hoyle subisce (come s’è visto, può perfino scherzarci sopra) il fatto d’essere stato ridotto da quei capi a uno spietato carnefice. Ciò che significa, in fondo, la sostanziale identità stabilitasi fra mandanti ed esecutore. Non a caso, Hoyle, parlando di uno dei suoi capi, Kroener, dice: «[…] la follia che abbiamo in comune è che lui, come me, non pensa che gli altri siano veramente reali. Che esistano realmente. Il che rende possibile fare un’infinità di cose terribili».
È per questo, dunque, che i tre monologhi in cui consiste il testo – il primo di Hoyle, il secondo di sua moglie Barbara e il terzo ancora di Hoyle – sono ambientati, per l’appunto, nei tre alberghi citati nel titolo, rispettivamente di Tangeri, di St Thomas, nelle Isole Vergini, e di Oaxaca, in Messico. Aggiunge infatti Hoyle: «Sono maturato negli alberghi. Ne ho tratto conforto. E quando licenziavo le persone, o tiravo qualche fregatura, lo facevo in un albergo perché in un albergo niente rimane. È tutto di passaggio e non ti trovi mai a dover affrontare la tua vera identità».

Maria Grazia Plos è Barbara

Maria Grazia Plos è Barbara

Viene poi ulteriormente ribadita, una simile «ideologia», dalla dichiarazione che fa Barbara nel corso di un meeting organizzato per le mogli degli «executives» di stanza nel Terzo Mondo: «La ragione per cui i vostri mariti hanno dato a Kenneth questo particolare incarico è stata che avevano capito che dopo la morte di Brandon (il figlio della coppia ucciso a sedici anni sulla spiaggia di Copacabana, n.d.r.) era diventato di pietra. E che ormai era capace di qualunque cosa».
Insomma, i temi portanti di «Tre alberghi» sono la logica implacabile e il cinismo invincibile del capitalismo. Alla fine ritroviamo Hoyle – dopo la denuncia della moglie è stato a sua volta licenziato – mentre sta registrando (fuori della sua stanza d’albergo passa emblematicamente la processione del Giorno dei Morti) un messaggio per la madre. Ma la madre è ricoverata nella Casa di Riposo Ebraica per Anziani di Baltimora. Ha ottantanove anni e l’Alzheimer l’ha ridotta a capire e a parlare solo l’yiddish. In poche parole, l’unica fuga possibile dalla follia che ha in comune con Kroener è per Hoyle quella di entrare in un’altra follia, in un’altra perdita d’identità.
Inutile rilevare, a questo punto, che il pregio raro del testo di Baitz risiede nella strenua coincidenza con i suoi temi, in virtù d’una scrittura  che – penso, in proposito, a narratori come gl’irlandesi Edna O’Brien e William Trevor – ha la stessa gelida precisione del referto di un anatomopatologo.

Serena Sinigaglia

Serena Sinigaglia

Ebbene, rispetto a tutto questo la regia di Serena Sinigaglia mette in campo talune invenzioni davvero non trascurabili. A partire dai grossi barattoli, i contenitori del famigerato latte in polvere, che sul palcoscenico sostituiscono ogni arredo, disposti in maniera da costituire di volta in volta il mobile bar, la sedia o la scrivania e che – quando Barbara ne spargerà il contenuto fino a ricoprire completamente quello che dovrebb’essere il pavimento delle stanze d’albergo previste dal testo – assumono, dunque, una funzione totalizzante per cui l’oggetto della truffa finisce, puramente e semplicemente, a prendere il posto del mondo e, perciò, della vita. Né di minor significato appare, sempre a titolo d’esempio, quel cameriere che entra impassibile, al termine di ciascun monologo, per portar via i bagagli del personaggio di turno, con ciò rappresentando il punto di vista del «valet de chambre» (ovvero la critica dal basso nei confronti dei padroni e dei loro servi/complici).
Poi, però, la Sinigaglia riesce a contraddirsi in modo assolutamente plateale e incomprensibile: vedi, poniamo, i nevrotici scoppi di rabbia di Kenneth e di Barbara a fronte della recitazione spenta e monocorde che per le ragioni esposte sarebbe necessaria, i pleonastici conati di vomito della stessa Barbara, l’incongruo pianto irrefrenabile che prende Kenneth quando racconta del suo licenziamento. Sino al patetico finale che vede Kenneth rannicchiarsi in posizione fetale, sovrastato da una figura che, evidentemente, viene dalla processione del Giorno dei Morti e che, così, altrettanto evidentemente perde la sua connotazione simbolica per assumere lo statuto banalmente realistico della morte normale. Senza contare che la sequenza viene commentata, non meno incomprensibilmente, da Elvis Presley che canta «Can’t help falling in love»: «Prendi la mia mano, prendi anche la mia intera vita / perché non posso fare a meno d’innamorarmi di te…».
Secondo la didascalia finale dell’autore quella sequenza dovrebbe svolgersi, invece, nella maniera seguente: «Hoyle va alla finestra, guarda la processione del Giorno dei Morti che si avvicina e si mette a cantare, molto piano, una ninnananna yiddish». Avrei capito, al massimo, se la Sinigaglia avesse messo al posto della ninnananna il Kaddish, la preghiera ebraica per i morti. E concludo dicendo che, comunque, assai bravi e impegnati risultano i due protagonisti Francesco Migliaccio e Maria Grazia Plos, affiancati da Marco Devescovi nel ruolo del cameriere. È per questa loro prova (a parte, s’intende, il valore del testo) che vale in ogni caso la pena di fare un salto alla Galleria Toledo.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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