NAPOLI – C’è una cosa superflua in «Mi chiamo Lina Sastri», lo spettacolo che Lina Sastri presenta al Trianon. Ed è proprio quel titolo così sfrontato e orgoglioso. Perché lo spettacolo si apre con la «Madonna de lu Carmene», il canto di Roberto De Simone che, a partire dal «Masaniello», resterà dentro di noi, per sempre, come una fotografia, come la vera e propria carta d’identità di Lina Sastri. Non c’era bisogno di aggiungere altro, Lina è la «Madonna de lu Carmene».
Ma molto di più significa quel canto rispetto allo spettacolo di cui parliamo. Quella mendicante che strisciava dietro lo stendardo della Madonna con le ginocchia piegate e l’anima nel sesso s’identifica ora, pari pari, con la frase bellissima delle note di regia della Sastri che accoppia «i sogni spezzati sulle spalle» e «le stelle in mano». L’«alto» e il «basso», dunque. E c’è una quartina del testo di «Madonna de lu Carmene» che sembra proprio l’anticipazione della struttura formale e del quadro contenutistico di «Mi chiamo Lina Sastri»: «A vede’ tanta miseria se schiantaje ‘a Mamma Santa / e ‘na lacrema lucente le scennette ‘ncopp’ ‘o manto. / A vede’ tantu dulore se chiammaje a San Gennaro: / “Neh, Jenna’, si prutettore o facisse ‘o ricuttaro?”».
L’«alto», il cielo della speranza, si rovescia nel «basso» di una quotidianità sofferente. E il simbolo di questo scarto sta nell’impianto scenico altrettanto bello di Alessandro Kokocinski. Sulla sinistra scende giù lungo un drappo rosso (e rosso è anche il vestito di Lina) una statua classicheggiante con il capo piegato verso l’incavo del braccio come a volersi nascondere. E a tratti s’alza e s’abbassa pure il velatino dietro cui è collocata l’orchestra. E dall’alto scende, dietro un altro velatino, l’eduardiana Madonna delle Rose.
No, questo spettacolo non è uno spettacolo «normale», volto al semplice intrattenimento. Ci sono nella vita momenti che accendono una strana malìa. La storia e il mondo si fermano, e resti solo con te stesso. E ti prende un vento che trascina e mescola – insieme furiosamente e dolcemente – ciò che hai letto (la tua cultura) e ciò che hai fatto (la tua esistenza), i ricordi e le urgenze del presente, le vittorie e le sconfitte, le fantasie e le delusioni, le passioni e le abitudini. Il cervello ingaggia un feroce duello con il cuore. E in questo duello consiste «Mi chiamo Lina Sastri».
Perciò mi ha riportato alla mente le «Primavere elleniche» di Carducci: «Lina, brumaio torbido inclina, / ne l’aer gelido monta la sera: / e a me ne l’anima fiorisce, o Lina, / la primavera». E perciò non m’attardo più di tanto, adesso, sui brani in scaletta (dai classici della canzone napoletana a Modugno, da Carosone a Pino Daniele, da Faiello alle composizioni della stessa Sastri) eseguiti con il solito trascinante vigore e ottimamente assistiti dagli arrangiamenti di Maurizio Pica e dall’accompagnamento di Filippo D’Allio alla chitarra, Gennaro Desiderio al violino, Salvatore Minale alle percussioni, Gianni Minale ai fiati, Salvatore Piedepalumbo alla fisarmonica e alle tastiere e Antonello Buonocore al contrabbasso. Né spreco parole sull’intensità espressiva con cui Lina interpreta ancora una volta i celeberrimi monologhi di «Filumena Marturano», quelli della Madonna delle Rose, appunto, e dei «bassi».
Tutto questo appartiene alla cronaca. E invece mette conto di soffermarsi, a titolo d’esempio, almeno su una sequenza, che coincide perfettamente con i momenti della vita a cui ho accennato. Appoggiata su un alto sgabello accanto alla statua di Kokocinski (e stavolta in camicia bianca e pantaloni neri), Lina cita alcuni versi de «Il mio cuore è nel Sud» di Peppino Patroni Griffi e poi, spostatasi al centro dello spazio scenico, prosegue con «Vuelvo al Sur», il tango di Piazzolla venuto da quell’Argentina che del Sud è un’altra patria. E nei versi di Goyneche – «Torno al Sud / come sempre si torna all’amore […] Arrivo al Sud / come un destino del cuore […] Sento il Sud / come il tuo corpo nell’intimità» – si riassumono, come già in «Cuore mio», tutti i temi, le cadenze e le suggestioni di «Mi chiamo Lina Sastri»: le radici e il sentimento, le oscure ragioni della vita e il suo trionfo, l’annullarsi d’ogni tensione e dolore nell’abbandono alla certezza consolante della carne.
Chiudo citando la struggente sequenza finale, che fonde nel canto emblematico di «’O sole mio» le voci di Lina e di sua madre Ninetta. C’è la stessa tenerezza dell’«ultima preghiera» che Giorgio Caproni rivolge alla propria anima perché vada a trovare la madre Annina: «Dille chi ti ha mandato: / suo figlio, il suo fidanzato. / D’altro non ti richiedo. / Poi, va’ pure in congedo». Ed eccolo, il titolo che Lina Sastri avrebbe dovuto dare allo spettacolo: «Mi chiamo emozione».
Enrico Fiore