Quell’emozione che si chiama Lina Sastri

Lina Sastri in un momento di «Mi chiamo Lina Sastri» (foto di Massimiliano Marolda)

Lina Sastri in un momento di «Mi chiamo Lina Sastri» (foto di Massimiliano Marolda)

NAPOLI – C’è una cosa superflua in «Mi chiamo Lina Sastri», lo spettacolo che Lina Sastri presenta al Trianon. Ed è proprio quel titolo così sfrontato e orgoglioso. Perché lo spettacolo si apre con la «Madonna de lu Carmene», il canto di Roberto De Simone che, a partire dal «Masaniello», resterà dentro di noi, per sempre, come una fotografia, come la vera e propria carta d’identità di Lina Sastri. Non c’era bisogno di aggiungere altro, Lina è la «Madonna de lu Carmene».
Ma molto di più significa quel canto rispetto allo spettacolo di cui parliamo. Quella mendicante che strisciava dietro lo stendardo della Madonna con le ginocchia piegate e l’anima nel sesso s’identifica ora, pari pari, con la frase bellissima delle note di regia della Sastri che accoppia «i sogni spezzati sulle spalle» e «le stelle in mano». L’«alto» e il «basso», dunque. E c’è una quartina del testo di «Madonna de lu Carmene» che sembra proprio l’anticipazione della struttura formale e del quadro contenutistico di «Mi chiamo Lina Sastri»: «A vede’ tanta miseria se schiantaje ‘a Mamma Santa / e ‘na lacrema lucente le scennette ‘ncopp’ ‘o manto. / A vede’ tantu dulore se chiammaje a San Gennaro: / “Neh, Jenna’, si prutettore o facisse ‘o ricuttaro?”».

Con la statua Di Kokocinski (foto di Luigi Maffettone)

Con la statua di Kokocinski
(foto di Luigi Maffettone)

L’«alto», il cielo della speranza, si rovescia nel «basso» di una quotidianità sofferente. E il simbolo di questo scarto sta nell’impianto scenico altrettanto bello di Alessandro Kokocinski. Sulla sinistra scende giù lungo un drappo rosso (e rosso è anche il vestito di Lina) una statua classicheggiante con il capo piegato verso l’incavo del braccio come a volersi nascondere. E a tratti s’alza e s’abbassa pure il velatino dietro cui è collocata l’orchestra. E dall’alto scende, dietro un altro velatino, l’eduardiana Madonna delle Rose.
No, questo spettacolo non è uno spettacolo «normale», volto al semplice intrattenimento. Ci sono nella vita momenti che accendono una strana malìa. La storia e il mondo si fermano, e resti solo con te stesso. E ti prende un vento che trascina e mescola – insieme furiosamente e dolcemente – ciò che hai letto (la tua cultura) e ciò che hai fatto (la tua esistenza), i ricordi e le urgenze del presente, le vittorie e le sconfitte, le fantasie e le delusioni, le passioni e le abitudini. Il cervello ingaggia un feroce duello con il cuore. E in questo duello consiste «Mi chiamo Lina Sastri».
Perciò mi ha riportato alla mente le «Primavere elleniche» di Carducci: «Lina, brumaio torbido inclina, / ne l’aer gelido monta la sera: / e a me ne l’anima fiorisce, o Lina, / la primavera». E perciò non m’attardo più di tanto, adesso, sui brani in scaletta (dai classici della canzone napoletana a Modugno, da Carosone a Pino Daniele, da Faiello alle composizioni della stessa Sastri) eseguiti con il solito trascinante vigore e ottimamente assistiti dagli arrangiamenti di Maurizio Pica e dall’accompagnamento di Filippo D’Allio alla chitarra, Gennaro Desiderio al violino, Salvatore Minale alle percussioni, Gianni Minale ai fiati, Salvatore Piedepalumbo alla fisarmonica e alle tastiere e Antonello Buonocore al contrabbasso. Né spreco parole sull’intensità espressiva con cui Lina interpreta ancora una volta i celeberrimi monologhi di «Filumena Marturano», quelli della Madonna delle Rose, appunto, e dei «bassi».

Con la Madonna delle Rose (foto di Luigi Maffettone)

Con la Madonna delle Rose
(foto di Luigi Maffettone)

Tutto questo appartiene alla cronaca. E invece mette conto di soffermarsi, a titolo d’esempio, almeno su una sequenza, che coincide perfettamente con i momenti della vita a cui ho accennato. Appoggiata su un alto sgabello accanto alla statua di Kokocinski (e stavolta in camicia bianca e pantaloni neri), Lina cita alcuni versi de «Il mio cuore è nel Sud» di Peppino Patroni Griffi e poi, spostatasi al centro dello spazio scenico, prosegue con «Vuelvo al Sur», il tango di Piazzolla venuto da quell’Argentina che del Sud è un’altra patria. E nei versi di Goyneche – «Torno al Sud / come sempre si torna all’amore […] Arrivo al Sud / come un destino del cuore […] Sento il Sud / come il tuo corpo nell’intimità» – si riassumono, come già in «Cuore mio», tutti i temi, le cadenze e le suggestioni di «Mi chiamo Lina Sastri»: le radici e il sentimento, le oscure ragioni della vita e il suo trionfo, l’annullarsi d’ogni tensione e dolore nell’abbandono alla certezza consolante della carne.
Chiudo citando la struggente sequenza finale, che fonde nel canto emblematico di «’O sole mio» le voci di Lina e di sua madre Ninetta. C’è la stessa tenerezza dell’«ultima preghiera» che Giorgio Caproni rivolge alla propria anima perché vada a trovare la madre Annina: «Dille chi ti ha mandato: / suo figlio, il suo fidanzato. / D’altro non ti richiedo. / Poi, va’ pure in congedo». Ed eccolo, il titolo che Lina Sastri avrebbe dovuto dare allo spettacolo: «Mi chiamo emozione».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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