La «giornata particolare» di Antonietta la siciliana

Valeria Solarino (Antonietta) e Giulio Scarpati (Gabriele) in una scena di «Una giornata particolare»

Valeria Solarino (Antonietta) e Giulio Scarpati (Gabriele) in una scena di «Una giornata particolare»

NAPOLI – È notissima la trama di «Una giornata particolare», il film di Scola del ’77 con Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Ma mi sembra opportuno riassumerla, prima di spiegare in che cosa si traduce la sua versione teatrale che la compagnia Gli Ipocriti presenta al Diana.
La «giornata particolare» di cui nel titolo è quella del 6 maggio 1938, che vide la visita di Hitler a Roma: e mentre la capitale è addobbata di cartapesta e di retorica («Questo popolo potentemente inquadrato, armato spiritualmente, e pronto ad esserlo anche materialmente, agli ordini di un capo dal genio indiscusso… può ora offrire al mondo uno spettacolo di serena, consapevole fermezza», declama il radiocronista), in un immenso e anonimo caseggiato popolare, abbandonato dagli altri inquilini accorsi ad affollare via dei Fori Imperiali, s’incontrano forse per la prima volta, e senza dubbio per la prima volta si parlano, due isolati, due emarginati, due esclusi che sono la vera e dolente immagine dell’Italia reale, di quell’Italia a cui il fascismo ha tolto sangue, dignità e coraggio.

Ettore Scola

Ettore Scola

Antonietta, una casalinga ancora giovane ma già madre di sei figli, e Gabriele, un modesto intellettuale licenziato dall’Eiar perché omosessuale, riescono così, e sia pure per poche ore, a ritrovare l’una la propria giovinezza dimenticata e offesa e l’altro il valore umano della propria «diversità». Possono riuscirci appunto perché sono rimasti soli, almeno per un pomeriggio liberi dall’occhiuto controllo che il conformismo ufficiale di massa esercita giorno dopo giorno su ogni loro gesto e ogni loro parola: e dunque, il messaggio che ci trasmetteva il film di Scola è quello della necessità di diventare protagonisti di noi stessi e della nostra più autentica natura, soprattutto di fronte alle forze – politiche o sociali che siano – tenacemente e ferocemente interessate ad ingabbiare l’individualità delle idee, degli istinti e dei sentimenti.
Ciò detto, aggiungo che la versione teatrale di «Una giornata particolare» l’avevamo già vista: al Politeama, nell’anno di grazia 1982. Allora venivano indicati come autori dell’adattamento lo stesso Scola, Ruggero Maccari e Gigliola Fantoni; e firmava la regia Vittorio Caprioli. Oggi viene indicata, come autrice dell’adattamento, la sola Gigliola Fantoni, vedova di Scola, mentre al posto di Giovanna Ralli e di Giancarlo Sbragia compaiono Valeria Solarino e Giulio Scarpati, attori di conclamato «appeal» cinematografico e televisivo; e la regia è firmata da Nora Venturini, la moglie di Scarpati.

Sophia Loren e Marcello Mastroianni in un'inquadratura del film di Scola

Sophia Loren e Marcello Mastroianni
in un’inquadratura del film di Scola

Comunque, ad onta di tali differenze, che pure contano, le due versioni teatrali di «Una giornata particolare» di cui parliamo risultano accomunate dallo stesso problema che infinite volte ho denunciato. Il teatro non è il cinema: e la parola, che nel cinema è un complemento dell’immagine, a teatro diventa il mezzo di comunicazione principale. E questo, se non in altri, almeno nel tipo di teatro a cui «Una giornata particolare» si richiama. Invece, essendo la parola che qui sentiamo quella stessa che nella sceneggiatura cinematografica originaria risultava essenzialmente al servizio dell’immagine, accade spesso che – privata com’è del supporto fondamentale assicurato, poniamo, dal primissimo piano – la si ascolti spasimare in una sorta d’impotenza costituzionale o, al contrario, precipitare (vedi i brevissimi monologhi dei due protagonisti) nella retorica più plateale e indifesa, vale a dire nel «messaggio» ostentato. Anche perché – in generale, a prescindere dal fatto che il testo si riduce più o meno alla sceneggiatura cinematografica originaria di Scola e Maccari – le parole sono notoriamente più «vischiose» delle immagini.
La regia della Venturini tenta, quindi, di «rimpolpare» quelle parole per mezzo di un impianto scenico (è di Luigi Ferrigno) che appunto al cinema si richiama, adottando un velatino che, salendo e scendendo, visualizza i passaggi da un ambiente all’altro (dalla cucina di Antonietta allo studio di Gabriele e al terrazzo) e, con ciò, cerca di riprodurre i salti di spazio e di tempo e, addirittura, la dissolvenza incrociata che del cinema sono propri. Ma si tratta di un tentativo piuttosto macchinoso e non meno modesto nella forma. Al pari dell’invenzione che attribuisce ad Antonietta il dialetto siciliano, riducendola di conseguenza a un’immigrata con lo scopo, evidente, di amplificarne e sottolinearne l’emarginazione e la subalternità.
Macchinosa e modesta (perché artificiosa) risulta, d’altronde, anche la recitazione di Valeria Solarino e Giulio Scarpati. Si vede benissimo che non sono attori teatrali (o che, comunque, sono attori che non hanno col palcoscenico una frequentazione assidua). Basta osservare, al riguardo, il modo in cui muove le mani la Solarino. Quello di che cosa fare delle e con le mani è il primo problema che deve affrontare e risolvere un attore, appartiene all’«abc» del teatro. E non a caso, qui viene fuori (non per paradosso, ma proprio perché è dotato di naturalezza) Paolo Giovannucci, l’attore che interpreta il ruolo minore del marito di Antonietta.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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