I «nipoti» di Scarpetta incarcerati nella stanza dei giochi

Antonella Morea e Rino Di Martino, protagonisti al Piccolo Bellini de «Li nepute de lu sinneco» di Scarpetta

Antonella Morea e Rino Di Martino, protagonisti al Piccolo Bellini de «Li nepute de lu sinneco» di Scarpetta

NAPOLI – Felice e Silvia sono fratello e sorella, e come tali dovrebbero amarsi. Ma – di fronte alla cospicua eredità che lo zio don Ciccio Sciosciammocca, appena eletto sindaco di Pozzano, ha deciso di lasciare al primo – diventano (per parafrasare un altro titolo di Scarpetta) come i proverbiali cane e gatto: e di qui i fantasiosi espedienti, e le mille bugie, con cui cercano di sopraffarsi a vicenda. Sino al non meno proverbiale lieto fine, nella circostanza costituito dalla divisione in parti uguali dell’eredità in questione e da un doppio matrimonio, quello riparatore di Felice e quello per amore di Silvia.
Questo, in sintesi, il plot de «Li nepute de lu sinneco». E, dunque, risulta subito evidente la discendenza della commedia scarpettiana (datata 1885) dall’originale francese «Le droit d’un aîné (Il diritto di un primogenito)», firmato da quel Paul Burani che non a caso fu, tra il 1877 e il 1880, l’incontrastato dominatore del parigino Athénée-Comique: giacché la struttura e gl’ingranaggi tipici della pochade e del vaudeville – gli equivoci, gli scambi di persona, i travestimenti e le più o meno scontate agnizioni – qui risaltano e deflagrano in maniera addirittura esemplare.
Basterebbe considerare, al riguardo, il modo in cui si presentano allo zio Silvia e Felice quando, come dicevo, cercano di sopraffarsi a vicenda: Silvia, che è scappata dal collegio per seguire il suo innamorato segreto Achille, intercetta una lettera che il fratello ha indirizzato a don Ciccio per avvertirlo che arriverà in ritardo all’appuntamento con lui (è inseguito da un altro fratello, quello della ragazza, Nannina, che ha compromesso baciandola) e si traveste da uomo per prendere il posto di Felice; e a sua volta quest’ultimo si traveste da donna per sfuggire, appunto, al fratello di Nannina.
Insomma, siamo dinanzi a una commedia che si rivela un puro meccanismo e, quindi, un gioco in sé. Ed è su questo che, con un’idea forte e persuasiva insieme, punta Pino Carbone, regista dell’allestimento de «Li nepute de lu sinneco» in scena nel Piccolo Bellini fino a domenica. Si tratta, in fondo, della stessa idea su cui Carbone basò, nel 2013, anche l’allestimento de «Il contratto» eduardiano: quella di riferirsi al «prima» della commedia, a quanto si agitava nel cervello e nell’inconscio di Eduardo mentre andava scrivendola.
Nella circostanza è come se Scarpetta venisse colto mentre si diverte a immaginare il divertimento che procurerà agli spettatori con le trovate a raffica che sta inventando. E ne consegue che il plot di cui sopra viene calato in una dimensione mentale: l’attore e l’attrice in campo interpretano due bambini che, chiusi (ma, alla luce di quanto dirò più avanti, sarà meglio usare il termine incarcerati) nella loro stanza dei giochi, interpretano via via tutti i personaggi della commedia.
Dunque, il vero palcoscenico è il tavolo che accoglie alla rinfusa le maschere, le parrucche e i cappelli necessari ai travestimenti che di volta in volta saranno messi in atto e, naturalmente, i pupazzi dei personaggi considerati nella loro fissità perché emblematici, a cominciare dal «sinneco». E risulta non poco significativo e intrigante l’accavallarsi, in un simile quadro, di stilemi formali connessi ai più vari e variegati generi di spettacolo: si va, poniamo, dalla sceneggiata alla farsa (con canonici scambi di parole tipo «galli» per calli o «fama» per «famma»), dalle guarattelle a, nientemeno, il Bunraku, il teatro giapponese dei burattini in cui in cui il «ningyo», giusto il burattino, viene manovrato dagli operatori a vista.
Ma, sempre proverbialmente parlando, sappiamo che ogni bel gioco dura poco. E così, alla fine la rappresentazione volge improvvisamente al drammatico, peraltro in sintonia con l’impianto scenico di Antonio Verde: una scatola tappezzata di nero e con le pareti trapuntate di minuscole luci, come un cielo di notte. L’attore viene alla ribalta e dice: «’O juoco è fernuto, ce simmo fatte gruosse», aggiungendo che non ci sarà il lieto fine previsto dal plot e che, di conseguenza, l’eredità di don Ciccio Sciosciammocca andrà per intero a Felice. Quel lieto fine sta unicamente nella testa di Scarpetta. E infatti l’azione ripartirà solo quando l’attore prenderà in mano il copione, per concludersi quando l’attore stesso, sempre con quel copione in mano, si rifugerà sul fondo nella medesima posizione dell’inizio.
Direi, poi, che non potevano darsi, a tal disegno registico, interpreti più congeniali di Antonella Morea e Rino Di Martino. E in conclusione, parliamo di uno spettacolo non solo intelligente, ma anche e soprattutto doveroso: è arrivato il momento che certi «classici» non vadano ulteriormente venerati, bensì, per l’appunto, smontati, onde verificare quali degl’ingranaggi citati possano essere ancora oggi utilizzati, per costruire nuovi meccanismi adatti a portarci oltre.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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4 risposte a I «nipoti» di Scarpetta incarcerati nella stanza dei giochi

  1. Antonella Morea scrive:

    Grazie, Enrico, per l’attenta analisi che ancora una volta ripaga l’impegno che abbiamo speso in questa nuova avventura!!!
    Grazie e buon anno!!!
    Antonella Morea

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a voi, Antonella, per averci regalato uno spettacolo così stimolante. E anche a te l’augurio di buon anno, di un anno che – per gli attori e gli spettatori insieme – sia almeno un poco più ricco di teatro vero.
    Enrico Fiore

  3. Rino Di Martino scrive:

    Grazie di cuore, era quello che volevamo dire con questo Scarpetta smontato e rimontato.
    Auguri di buon anno.
    Rino Di Martino

  4. Enrico Fiore scrive:

    Vale anche per te, caro Rino, la risposta che ho dato ad Antonella Morea. E anche a te, naturalmente, ricambio gli auguri di buon anno.
    Enrico Fiore

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