NAPOLI – La forza propulsiva de «Il giro del mondo in 80 minuti» – il concerto-spettacolo che l’Orchestra di Piazza Vittorio ha presentato (purtroppo per soli due giorni) al Bellini – sta nello scarto fra una quotidianità minima, persino degradata, e la capacità della fantasia di opporle il sogno di una strada verso il riscatto.
Infatti, c’imbattiamo qui (la drammaturgia è di Mario Tronco, Giulia Steigerwalt e Daniele Spanò) in Simon, un diseredato qualsiasi che, travestito da gladiatore, per dieci euro si fa fotografare con i turisti davanti al Colosseo. Ma poi legge un annuncio: «Alle 21 di oggi partirà una barca per un lungo e meraviglioso viaggio dalla meta sconosciuta. Il biglietto è gratuito, l’unica condizione per potersi imbarcare è portare con sé una canzone. Ed è consentito un solo bagaglio». E prende a correre a perdifiato, Simon, perché ha bisogno di salire su quella barca e alla partenza mancano solo, per l’appunto, 80 minuti.
Nel porto di Belesh, però, non c’è una barca, c’è appena una zattera: un’«isola di legno» su cui – dice una canzone – sono riunite tante «solitudini». Salvo che, comunque, in quella «strana società» vince fra tutti i sentimenti l’amicizia. E può dunque levarsi, in arabo, l’invocazione: «Dio, ti preghiamo di rendere facile questa vita in comune / come se questa vita parallela fosse una piccola città. / Dio, ascoltaci, rendi il nostro cammino leggero, / che possa allontanarsi da questa terra invivibile, / che scivoli sulle onde, destinazione una nuova terra priva di tirannia».
Si capisce, allora, che ne «Il giro del mondo in 80 minuti» si mescolano incessantemente il «basso» e l’«alto». Fra coloro i quali vogliono salire a bordo della zattera, ci sono, poniamo, un arabo che cerca di corrompere il capitano per imbarcare più valigie e un africano con una piccolissima valigia magica grazie alla quale riesce a cantare in qualsiasi lingua. E in uno dei video dello stesso Spanò compaiono alternativamente, al di là di un groviglio d’onde, una grande moschea capovolta e un fantasmagorico castello da favola.
In egual modo, le bottiglie di vino vuotate tra una partita a carte e l’altra si trasformano sul fondale, accogliendo al proprio interno una candela, in generose lanterne appese ai rami degli alberi per guidare i viandanti smarriti nel buio del bosco che, manco a dirlo, è la nostra esistenza. E così l’oscillare all’inizio e alla fine dei musicisti/attori, rimandando all’effetto del rollìo, mi ha fatto ripensare alla sensazione che sempre ho provato quando percorrevo, su una nave che trasportava emigranti, le rotte transoceaniche verso l’Australia e la Nuova Zelanda: una sensazione d’immobilità assoluta e di frenetico movimento insieme, giacché, mentre la nave resta perennemente uguale a se stessa, il mare in cui si trova immersa cambia continuamente, inafferrabile, misterioso e ipnotico.
Un’altra cosa, dunque, si capisce: che, come ogni creazione artistica degna del nome, anche «Il giro del mondo in 80 minuti» è fondato sulla compresenza dell’ossimoro e della metafora. E di tanto costituisce una dimostrazione esaustiva la canzone tratta da una poesia di Saramago: «Bisogna vedere quel che non si è visto, / vedere di nuovo quello che si è già visto. / In primavera quello che si trova in estate, / e di giorno quello che si trova di notte».
Le canzoni in scaletta, giusto il «giro del mondo» di cui nel titolo di questo concerto-spettacolo, vengono, tanto per fare qualche esempio, dal Regno Unito e da Cuba, dal Senegal e dall’Algeria, dall’India e da Panama. E tra esse, a ribadire ulteriormente la compresenza dell’ossimoro e della metafora, spicca «Ia ia polizia», una canzone tunisina di Ziad Trabelsi che non esito a considerare come il più profondo ed efficace discorso contro l’Isis che abbia sentito finora: parla di un cantante sufi che viene sospettato d’essere un terrorista e quindi spedito in carcere, per poi essere liberato quando si scopre che ama il vino e le donne. È chiaro, no? L’Isis è il contrario della vita, simboleggiata, per l’appunto, dal vino e dalle donne. E il cantante sufi lo riafferma presentandosi puntualmente ubriaco nel commissariato in cui deve andare ogni giorno a firmare.
È ovvio, perciò, che vada a vuoto il tentativo di sequestrare quella zattera. Così come è superfluo, adesso, dire della perizia e, in pari tempo, dell’allegria che l’Orchestra di Piazza Vittorio – questo straordinario ensemble di quindici musicisti e cantanti di dieci diverse nazionalità ideato e creato da Mario Tronco e Agostino Ferrente – mette nell’esecuzione (e, molto di più, nell’interpretazione) dei brani proposti. Siamo di fronte a un’autentica e inesausta esplosione, che trascina coi suoi ritmi, diverte coi suoi siparietti e intriga colle sue riflessioni.
Allo stesso modo, è inutile sprecare parole circa la sapienza degli arrangiamenti firmati dallo stesso Tronco, da Pino Pecorelli e da Leandro Piccioni. Mi limito, per chiudere, a citare i cantanti solisti Houcine Ataa, Sylvie Lewis, Carlos Paz Duque e, appunto, Ziad Trabelsi. E la naturalezza con cui sax e tastiere s’affiancano a tablas, flauti andini, djembe, kora e oud parla anch’essa, e ancora sotto specie di metafora, stavolta sonora, di una toccante e indomita fraternità. Celebrata come un rito dal Mario Tronco in veste di capitano.
Enrico Fiore