Veleggiando per il mondo col vento della musica nell’anima

Un momento de «Il giro del mondo in 80 minuti», con il tunisino Ataa Houcine che canta una canzone contro il terrorismo

Un momento de «Il giro del mondo in 80 minuti» dell’Orchestra di Piazza Vittorio,
con il tunisino Houcine Ataa che canta la canzone di Ziad Trabelsi contro il terrorismo

NAPOLI – La forza propulsiva de «Il giro del mondo in 80 minuti» – il concerto-spettacolo che l’Orchestra di Piazza Vittorio ha presentato (purtroppo per soli due giorni) al Bellini – sta nello scarto fra una quotidianità minima, persino degradata, e la capacità della fantasia di opporle il sogno di una strada verso il riscatto.
Infatti, c’imbattiamo qui (la drammaturgia è di Mario Tronco, Giulia Steigerwalt e Daniele Spanò) in Simon, un diseredato qualsiasi che, travestito da gladiatore, per dieci euro si fa fotografare con i turisti davanti al Colosseo. Ma poi legge un annuncio: «Alle 21 di oggi partirà una barca per un lungo e meraviglioso viaggio dalla meta sconosciuta. Il biglietto è gratuito, l’unica condizione per potersi imbarcare è portare con sé una canzone. Ed è consentito un solo bagaglio». E prende a correre a perdifiato, Simon, perché ha bisogno di salire su quella barca e alla partenza mancano solo, per l’appunto, 80 minuti.
Nel porto di Belesh, però, non c’è una barca, c’è appena una zattera: un’«isola di legno» su cui – dice una canzone – sono riunite tante «solitudini». Salvo che, comunque, in quella «strana società» vince fra tutti i sentimenti l’amicizia. E può dunque levarsi, in arabo, l’invocazione: «Dio, ti preghiamo di rendere facile questa vita in comune / come se questa vita parallela fosse una piccola città. / Dio, ascoltaci, rendi il nostro cammino leggero, / che possa allontanarsi da questa terra invivibile, / che scivoli sulle onde, destinazione una nuova terra priva di tirannia».

Il «capitano» Mario Tronco

Il «capitano» Mario Tronco

Si capisce, allora, che ne «Il giro del mondo in 80 minuti» si mescolano incessantemente il «basso» e l’«alto». Fra coloro i quali vogliono salire a bordo della zattera, ci sono, poniamo, un arabo che cerca di corrompere il capitano per imbarcare più valigie e un africano con una piccolissima valigia magica grazie alla quale riesce a cantare in qualsiasi lingua. E in uno dei video dello stesso Spanò compaiono alternativamente, al di là di un groviglio d’onde, una grande moschea capovolta e un fantasmagorico castello da favola.
In egual modo, le bottiglie di vino vuotate tra una partita a carte e l’altra si trasformano sul fondale, accogliendo al proprio interno una candela, in generose lanterne appese ai rami degli alberi per guidare i viandanti smarriti nel buio del bosco che, manco a dirlo, è la nostra esistenza. E così l’oscillare all’inizio e alla fine dei musicisti/attori, rimandando all’effetto del rollìo, mi ha fatto ripensare alla sensazione che sempre ho provato quando percorrevo, su una nave che trasportava emigranti, le rotte transoceaniche verso l’Australia e la Nuova Zelanda: una sensazione d’immobilità assoluta e di frenetico movimento insieme, giacché, mentre la nave resta perennemente uguale a se stessa, il mare in cui si trova immersa cambia continuamente, inafferrabile, misterioso e ipnotico.
Un’altra cosa, dunque, si capisce: che, come ogni creazione artistica degna del nome, anche «Il giro del mondo in 80 minuti» è fondato sulla compresenza dell’ossimoro e della metafora. E di tanto costituisce una dimostrazione esaustiva la canzone tratta da una poesia di Saramago: «Bisogna vedere quel che non si è visto, / vedere di nuovo quello che si è già visto. / In primavera quello che si trova in estate, / e di giorno quello che si trova di notte».

Il tentativo di fermare il «giro»

Il tentativo di fermare il «giro»

Le canzoni in scaletta, giusto il «giro del mondo» di cui nel titolo di questo concerto-spettacolo, vengono, tanto per fare qualche esempio, dal Regno Unito e da Cuba, dal Senegal e dall’Algeria, dall’India e da Panama. E tra esse, a ribadire ulteriormente la compresenza dell’ossimoro e della metafora, spicca «Ia ia polizia», una canzone tunisina di Ziad Trabelsi che non esito a considerare come il più profondo ed efficace discorso contro l’Isis che abbia sentito finora: parla di un cantante sufi che viene sospettato d’essere un terrorista e quindi spedito in carcere, per poi essere liberato quando si scopre che ama il vino e le donne. È chiaro, no? L’Isis è il contrario della vita, simboleggiata, per l’appunto, dal vino e dalle donne. E il cantante sufi lo riafferma presentandosi puntualmente ubriaco nel commissariato in cui deve andare ogni giorno a firmare.
È ovvio, perciò, che vada a vuoto il tentativo di sequestrare quella zattera. Così come è superfluo, adesso, dire della perizia e, in pari tempo, dell’allegria che l’Orchestra di Piazza Vittorio – questo straordinario ensemble di quindici musicisti e cantanti di dieci diverse nazionalità ideato e creato da Mario Tronco e Agostino Ferrente – mette nell’esecuzione (e, molto di più, nell’interpretazione) dei brani proposti. Siamo di fronte a un’autentica e inesausta esplosione, che trascina coi suoi ritmi, diverte coi suoi siparietti e intriga colle sue riflessioni.
Allo stesso modo, è inutile sprecare parole circa la sapienza degli arrangiamenti firmati dallo stesso Tronco, da Pino Pecorelli e da Leandro Piccioni. Mi limito, per chiudere, a citare i cantanti solisti Houcine Ataa, Sylvie Lewis, Carlos Paz Duque e, appunto, Ziad Trabelsi. E la naturalezza con cui sax e tastiere s’affiancano a tablas, flauti andini, djembe, kora e oud parla anch’essa, e ancora sotto specie di metafora, stavolta sonora, di una toccante e indomita fraternità. Celebrata come un rito dal Mario Tronco in veste di capitano.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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