«Ivanov», quando il dramma si maschera da vaudeville

Da sinistra, Fulvio Pepe e Filippo Dini in «Ivanov» (le foto che illustrano l'articolo sono di Michele Lamanna)

Da sinistra, Fulvio Pepe e Filippo Dini in «Ivanov» (le foto che illustrano l’articolo sono di Michele Lamanna)

NAPOLI – Venendo dal fondo del giardino, Borkin s’avvicina a Ivanov, che sta leggendo un libro seduto a un tavolo, e quando lo raggiunge gli punta in faccia un fucile. E allorché Ivanov vede Borkin, «sussulta», «balza in piedi» ed esclama: «Misha, santo cielo… mi ha messo paura…».
È la scena iniziale dell’«Ivanov» di Cechov. Ma – nell’allestimento di quel dramma che il Teatro Due di Parma e lo Stabile di Genova presentano ancora oggi al Bellini – la scena in questione si svolge nel modo seguente: arrivando alle spalle di Ivanov, Borkin gli punta ripetutamente una pistola alla testa; e prima di pronunciare la frase citata, Ivanov, sentendosi toccare sulla testa, compie ripetutamente, con la mano destra, il gesto che normalmente si compie per scacciare un insetto.
In breve, lo scherzo di Borkin viene, così, spostato nella dimensione di un’ordinaria quotidianità; e il ripetersi del suo gesto di avvio e della reazione tranquilla di Ivanov a quell’avvio parlano di un’«abitudine», con ciò costituendo un’eclatante prefigurazione del colpo di pistola che realmente partirà alla fine. E basterebbe una simile variante a dimostrare l’intelligenza e l’inventiva con cui la regia di Filippo Dini ha sottolineato i temi portanti del testo cechoviano. Del quale, adesso, converrà riassumere per sommi capi le ragioni, ripetendo quanto ho già scritto in altre circostanze.
È noto che alla «prima» di Mosca del 19 novembre 1887, nel teatro di proprietà di quel Kors che l’aveva commissionato, l’«Ivanov» non ebbe una buona accoglienza: il pubblico si divise tra il consenso e la protesta, i critici spararono a zero. Ma, a proposito delle recensioni di questi ultimi, fu lo stesso Cechov a definirle «un vero abbaiar di cani che non osano mordere». Perché, in effetti, il motivo reale del dissenso di quei recensori consisteva nell’originalità del testo, che essi non erano in grado di comprendere e di accettare pur intuendone oscuramente l’enorme potenzialità.

Sara Bertelà nel ruolo di Anna Petrovna

Sara Bertelà come Anna Petrovna

Infatti, nell’«Ivanov», una delle primissime prove di grosso impegno drammaturgico affrontate da Cechov dopo la stima e la popolarità che gli avevano procurato gli atti unici ricavati dalle novelle scritte in precedenza, sono già presenti i motivi e le atmosfere che si affermeranno poi nelle opere della maturità. E al riguardo è sufficiente considerare la figura del protagonista: un signorotto di campagna e insieme un intellettuale deluso che – come l’autore disse a Korolenko – avrebbe dovuto chiamarsi, per essere «il più comune degli uomini», Ivan Ivanovic.
Ebbene, questo Ivanov ha una moglie, Anna, che non solo è ammalata, ma teme che il disinteresse del marito verso la vita finisca per tradursi in disamore verso di lei: giacché Ivanov, per giunta, frequenta spesso la casa dei Lebedev, la cui figlia Sasha s’è invaghita di lui. E il finale è dunque abbastanza prevedibile: quando Anna muore, Ivanov, sospettando che il sentimento di Sasha derivi solo dalla pietà e non sopportando, del resto, le accuse del dottor L’vov, che lo ritiene colpevole della morte della moglie, si toglie la vita – appunto – con un colpo di pistola.
In una precedente stesura del dramma, il protagonista moriva invece per collasso cardiaco: ma la soluzione del suicidio, che lo stesso Cechov definì «melodrammatica», gli parve che fosse una più logica conseguenza del vuoto spirituale in cui si dibatteva il personaggio.
A proposito di Ivanov – senza dimenticare che finisce per porsi come un segno del clima di disfatta e di sfiducia seguito alla reazione politica sotto Alessandro III – vale, insomma, l’analisi di uno studioso dell’acume di Vittorio Strada: «Il dramma di Ivanov è il dramma della complessità e della lucidità, il dramma di una ragione vaneggiante, di un’allucinata logicità. L’Ivanov diventa il protocollo drammatico di una malattia».

Ilaria Falini (la Babàkina) e Nicola Pannelli (il conte Sabel'skij)

Ilaria Falini (Marfa Babàkina) e Nicola Pannelli (il conte Sabel’skij

Tutto questo, ripeto, la regia di Filippo Dini lo illumina con invenzioni assolutamente decisive. Vedi, per quanto riguarda l’«abitudine» di cui sopra, il fatto che qui Borkin ripete ossessivamente, per tre o quattro volte, la domanda «Bere fa male?» che nel testo originale pone una volta sola. Il che, per giunta, rimanda alla comicità da svagato vaudeville che – in ossequio alle prescrizioni di Cechov circa l’andamento da conferire alla rappresentazione dei suoi testi – costituisce la sottolineatura per contrasto della sostanza drammatica messa in campo dal plot.
Non a caso, nella scena di Laura Benzi è tutto un fiorire e un aprirsi e chiudersi di porte da «Albergo del libero scambio», mentre l’ambivalenza del testo trova riscontro anche nel modo di parlare di Ivanov, che accoppia un tono di fondo da basso continuo con improvvisi e nevrotici scoppi d’ira e insofferenza. E, per suo conto, il «melodramma» viene richiamato da un rincorrersi di «Là ci darem la mano» e di «La donna è mobile». Senza trascurare l’andirivieni di un tonto Gavrila (è l’allusione straniante allo sguardo dal basso del «valet de chambre») nel corso della scena madre fra Sasha e il padre in vista delle problematiche nozze di lei con Ivanov.
Ma, poi, lo spettacolo (non lasciatevelo sfuggire!) trova il suo acme poetico nella sequenza della morte di Anna: che s’abbandona fra le braccia di Ivanov in una danza lieve, perduta e dolcissima, prima che le gambe comincino a cederle e che scivoli a terra, in uno con l’apparire degli altri personaggi principali sotto specie di fantasmi o di bambole meccaniche. Non ho dubbi, è certamente una delle scene più belle, significative ed emozionanti che abbia mai visto a teatro.
Per concludere, un’annotazione quasi superflua a proposito del livello e dell’omogeneità rari della compagnia d’interpreti in azione: citerei per primo, ovviamente, lo stesso Dini nel ruolo di Ivanov e di Kosych e quindi, accanto a lui, Sara Bertelà (Anna Petrovna e Avdot’ja Nazàrovna), Nicola Pannelli (il conte Sabel’skij e il secondo ospite) e Ilaria Falini (Marfa Babàkina). Gli altri, non meno bravi, sono Antonio Zavatteri (Lebedev), Orietta Notari (Zinaida Sàvisna), Valeria Angelozzi (Sasha), Ivan Zerbinati (L’vov e Gavrila) e Fulvio Pepe (Borkin e il primo ospite). Applausi convinti, anche a scena aperta, e un non meno convinto coro di «bravi, bravi» al termine.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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