Vive solo nel ricordo il «giuoco» di Leone Gala

Umberto Orsini in un momento de «Il giuoco delle parti», in scena al Mercadante

Umberto Orsini in un momento de «Il giuoco delle parti», in scena al Mercadante

NAPOLI – Lo dico subito, e con assoluta convinzione: l’allestimento de «Il giuoco delle parti» che la Compagnia Orsini propone al Mercadante è uno spettacolo importante; e lo è già a partire da talune dichiarazioni che Orsini ha reso ai giornali.
Di solito (l’ho imparato bene, in oltre cinquant’anni di professione) le cosiddette «interviste di presentazione» degli spettacoli si traducono – complice il fatto che in genere l’intervistatore non sa di che cosa si sta parlando – in una sterile esibizione autoincensatoria, e grondante di sciocchezze ammantate d’intellettualismo, da parte dei registi e degli attori intervistati. Ma in questo caso si è trattato di dichiarazioni che hanno toccato il cuore profondo del testo, dimostrando ancora una volta, ove mai ce ne fosse stato bisogno, che Umberto Orsini è uno dei pochissimi attori veramente intelligenti e colti in circolazione.
In breve, Orsini ha detto cinque cose fondamentali: 1) che non «tradisce» Pirandello, ma «lo approfondisce»; 2) che s’è interrogato circa quel che accade a Leone Gala «quando il sipario cala»; 3) che, quindi, «ha preso le mosse dal dopo»; 4) che ha immaginato che per Leone Gala «il passato sia sempre presente»; 5) che, infine, «Gala non è un intellettuale raffinato». Ma, prima di procedere con la descrizione e l’analisi dell’adattamento del testo che da tali dichiarazioni discende (il programma di sala lo attribuisce al regista Roberto Valerio, a Orsini e allo scenografo Maurizio Balò, mentre io sospetto, proprio tenendo conto di quelle dichiarazioni, che sia soprattutto di Orsini), ricordo, in estrema sintesi, ciò che racconta e significa, per l’appunto, il testo originale de «Il giuoco delle parti».

Umberto Orsini in un'altra scena

Umberto Orsini in un’altra scena

Leone Gala – separatosi in maniera del tutto informale dalla moglie Silia e da lei coinvolto nell’offesa fattale da un nobilastro – scioglie l’intricata situazione sulla base della lucida e inattaccabile razionalità in cui s’è chiuso per difendersi, insieme, dagli altri e dalla vita: sarà lui, in quanto marito legale, a sfidare il nobilastro, ma il battersi effettivamente in duello – per ossequio, appunto, al «giuoco delle parti» – toccherà, in quanto marito reale, a Guido Venanzi, l’amante di Silia.
Dunque – come in varie occasioni ho avuto modo di osservare – Leone Gala è il giudice («Io vi ho puniti!», griderà alla moglie) di quella buona società post-umbertina perduta nell’ozio e nell’erotismo; ma un giudice la cui corazza d’alterità comincia già a mostrare qualcuna delle incrinature («La mia vergogna sei tu», si lamenta rivolto, ancora, a Silia) che poi diventeranno evidenti e devastanti nella Fulvia di «Come prima, meglio di prima»: perché, lo sappiamo, Pirandello si rifiutò strenuamente (o ne fu «costituzionalmente» incapace) di condurre sino in fondo, e cioè sino a una condanna irreversibile, il processo da lui intentato contro la borghesia. In breve, la rivolta dell’«eroe» pirandelliano è, sistematicamente, una rivolta a termine.
Ebbene, nell’adattamento di cui è protagonista Orsini incontriamo Leone Gala in quello che si presenta chiaramente come un ospedale psichiatrico. E la trama di cui sopra diventa un tormentato flashback, l’insieme confuso dei ricordi che lo stesso Gala ripesca stando spesso immobile sulla sedia a rotelle che – a mo’ di anticipazione icastica – vediamo collocata nell’angolo destro del proscenio anche prima che il sipario si apra.
Siamo, in tutta evidenza, di fronte a un’acuta rilettura de «Il giuoco delle parti» alla luce di quell’Henrik Ibsen che – come sa chi ha la bontà e la pazienza di leggermi – non smetto mai di citare. Stante un presente asfittico e ineffettuale, non resta che riempirne il vuoto con l’evocazione del passato. Ma, siccome il teatro conosce solo l’opzione del presente, l’unico modo di far rivivere sul palcoscenico il passato è quello di sottoporlo a un vero e proprio processo. E infatti noi ricordiamo unicamente quel che vogliamo ricordare, con ciò assumendo, rispetto alla nostra vita precedente, per l’appunto il ruolo del giudice.

Orsini con Alvia Reale

Orsini con Alvia Reale

Tuttavia – e giuste le incrinature, a cui prima accennavo, della corazza d’alterità indossata da Leone Gala – qui il personaggio perde i connotati d’«onnipotenza» che solitamente gli vengono attribuiti e si riduce a un travet nello stesso tempo dimesso e insinuante. Si muove con passo malfermo, e pronuncerà con voce flebile e incerta, come se non ci credesse, anche quell’«Io vi ho puniti!» che invece, secondo le didascalie di Pirandello, dovrebbe pronunciare «a gran voce» e, appunto, «con l’aria e l’impero e lo sdegno di fierissimo giudice».
Del resto, altissime grate (una reminiscenza dell’allestimento de «Il giuoco delle parti» di cui vent’anni fa Orsini fu protagonista per la regia di Gabriele Lavia) opprimono l’ambiente che adesso lo ospita. E sono, ovviamente, l’equivalente della «carcere», della «prigione» e dei «serragli» richiamati dal testo originale. Col che non c’è bisogno d’aggiungere altro per ribadire l’esemplarità di quest’allestimento, che esalta l’autore proprio in quanto gli è, contemporaneamente, fedele e infedele: in quanto, cioè, accoglie i contenuti decisivi del suo testo mentre ne rifiuta la lettera e la superficie.
Infine, al centro di una tela siffatta sta il ragno di un Umberto Orsini che, nelle vesti di attore, risulta semplicemente strepitoso: quel suo Leone Gala – tutto anemici gesti e sorrisetti ambigui che trasformano in una talpa sconfitta l’impassibile raisonneur della trama in sé – rimarrà, senz’alcun dubbio, non solo in un’ideale antologia del teatro, ma anche, e specialmente, nella galleria dei personaggi che si pongono come nostri compagni di strada nel problematico stillicidio dei giorni che oggi ci tocca. E accanto a Orsini metterei subito un’eccellente Alvia Reale (Silia), per poi elencare gli efficaci comprimari Totò Onnis (Guido Venanzi), Flavio Bonacci (il dottor Spiga), Carlo De Ruggieri (Socrate) e Alessandro Federico (Barelli).
Per chiudere mi permetterei di offrire a Orsini e a Valerio lo stesso suggerimento (da lui accolto e messo in pratica sin nei minimi particolari) che offrii all’indimenticabile Romolo Valli per l’«Enrico IV»: quello di avanzare lentamente verso il proscenio mentre pronunciava l’ultima battuta rivolta ai «consiglieri segreti» («Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per sempre!») e mentre, altrettanto lentamente, a mano a mano si chiudeva alle sue spalle l’immenso sipario trasversale di Pier Luigi Pizzi. E così Romolo Valli, tagliato fuori dallo spettacolo quando quel sipario si chiudeva completamente, finiva ad essere non più il personaggio e non più l’attore che lo aveva interpretato, ma un uomo tra gli uomini: e solo, come ogni uomo, e in compagnia soltanto del proprio dolore di esistere.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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