L’ultimo Ronconi e il capitalismo sul filo

L'immagine della locandina di «Lehman Trilogy»: da sinistra, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Fausto Cabra e Massimo De Francovich (foto di Luigi Laselva)

La locandina di «Lehman Trilogy» di Stefano Massini, l’ultimo spettacolo diretto da Luca Ronconi: da sinistra, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, Paolo Pierobon, Fausto Cabra e Massimo De Francovich (foto di Luigi Laselva)

ROMA – Sono arrivato buon ultimo, fra i critici, a vedere (mi si passi il gioco di parole) l’ultimo spettacolo di Ronconi, «Lehman Trilogy». L’ho visto all’Argentina, nell’ambito dell’interessante stagione del Teatro di Roma. E proprio la sua notevole caratura – per quanto riguarda sia i contenuti che l’aspetto formale – costituisce la prova, ove mai ce ne fosse bisogno, del vuoto enorme lasciato dal maestro scomparso: un vuoto, meno male, colmato in parte dalla continuità stabilita nel ruolo di direttore artistico del Piccolo, che produce l’allestimento, fra lo stesso Ronconi e Stefano Massini, l’autore, appunto, di «Lehman Trilogy».
Ma cominciamo dal testo. Diviso in tre parti («Tre fratelli», «Padri e figli» e «L’immortale»), racconta oltre centosessant’anni di storia del capitalismo attraverso le vicende della famiglia ebrea di cui nel titolo, giusto i Lehman: che, partiti dal paesino di Rimpar, in Baviera, a poco a poco finiscono per entrare nel novero dei banchieri più potenti non solo degli Stati Uniti ma del mondo intero. Investendo via via nel cotone, nel caffè, nelle ferrovie, nel canale di Panama, nella telefonia, nei computer e addirittura nella bomba atomica. E passando dalla Guerra di Secessione alla crisi del 1929, dalle due guerre mondiali a una prima débâcle negli anni Ottanta, sino al fallimento, il 15 settembre 2008, in seguito al disastro dei mutui «subprime».
Ad avviare la saga sono Henry, Emanuel e Mayer, detto «Bulbe» ossia «patata»: il maggiore (ovvero «la testa»), il mezzano (ovvero «il braccio») e il più piccolo (ovvero «quello che ci vuole fra la testa e il braccio perché il braccio non spacchi la testa e la testa non umilî il braccio») dei fratelli protagonisti della prima parte. E già quest’interazione fra nomi, soprannomi, livelli d’età e gerarchie dimostra come il fluviale testo di Massini (324 pagine nell’edizione Einaudi) mescoli in maniera persino fantasmagorica realismo e simbolismo, muovendosi tra il saggio, il romanzo, il teatro e, di conseguenza, fra la narrazione in terza persona e il dialogo.
Dunque, «Lehman Trilogy» è connotato, innanzitutto, da un piglio documentaristico scrupoloso e finanche puntiglioso: giacché si va, poniamo, dall’ovvia citazione di parole, locuzioni e preghiere ebraiche, partendo dal «Baruch Hashem» (letteralmente «Benedetto il Nome», e quindi «Grazie a Dio»), alla spiegazione che il termine inglese «blue-jeans» deriva dalla stoffa, che combinava il blu con l’ordito bianco, usata dai marinai di Genova per impacchettare le vele e perciò chiamata in italiano «blu di Genova» e in francese «bleu de Gênes».

Stefano Massini con Luca Ronconi

Stefano Massini con Luca Ronconi

Con ciò dico anche del continuo alternarsi, nello straordinario e straordinariamente complesso testo di Massini, dell’«alto» al «basso». E di qui, per esempio, il feroce sarcasmo di estrazione ideologica in cui risultano inscritti il principio fondamentale del capitalismo («non si lavora per vivere, ma si vive per lavorare») e la sua «vulgata» statunitense («Another day, another dollar!»).
Quindi, non è che, poi, l’ebraismo resti un che di appiccicato: perché, al contrario, l’ironia che permea il testo discende proprio dal «witz», la tipica, sottile e irresistibile storiella ebraica. Vedi, sempre a titolo d’esempio, il «Babette, bella come la luna…» che Mayer soprannominato «Patata» mormora all’orecchio della ragazza per la quale spasima: il commento dice che quel complimento «è un risultato non comune per un ortaggio in vena di poesia».
Non meno complesso, del resto, si rivela lo spettro delle forme e degli stili qui adottati. Tanto per dire, la descrizione di New York come appare a Emanuel quando vi arriva mi fa venire in mente la «Napucalisse» di Mimmo Borrelli. E diventa per l’appunto un «rap» anche l’inno alla Borsa che si leva quando i Lehman passano dallo scambio concreto delle merci allo scambio virtuale, quando, cioè, passano dall’economia della moneta alla finanza, ovvero all’economia delle azioni, delle obbligazioni e dei fondi comuni d’investimento: «Non c’è niente a Wall Street / eppure / a Wall Street c’è tutto»; e dunque: «non c’è il ferro, ma c’è la parola: FERRO / non c’è la stoffa, ma c’è la parola: STOFFA / non c’è il carbone, ma c’è la parola: CARBONE».
Ma ecco che, in ossequio al simbolismo e al sarcasmo di cui sopra, Massini chiama a impersonare questa nuova economia il Solomon Paprinskij che tutte le mattine fa l’equilibrista sul filo davanti all’ingresso di Wall Street e il nano col cilindro, vestito interamente di giallo, che all’angolo di Liberty Street, dove ha sede la banca dei Lehman, fa il gioco delle tre carte sopra una cassetta della frutta. Tanto è vero che – in quella New York ribattezzata «Jew York» da una scritta su un muro di Brooklyn – la prima caduta dal filo di Paprinskij, dopo cinquant’anni che non era mai caduto, coincide, il 24 ottobre del ’29, per l’appunto con il crollo di Wall Street.
Né manca, si capisce, la dimensione onirica. Perché anche i finanzieri sognano. Ma, si capisce anche questo, è speculare il contrasto fra l’aridità delle cifre e, giusto, il calor bianco dei sogni. Qui, voglio dire, non c’entra la psicanalisi, non c’è bisogno di Freud per interpretare quei sogni: essi sono unicamente un’anticipazione delle imprese nuove (o dei fallimenti) che attendono i Lehman. Emanuel sogna di essere investito da un treno perché di lì a poco la banca di famiglia entrerà nel mercato delle ferrovie, suo figlio Philip sogna, poco prima del crollo di Wall Street, di essere travolto dal crollo della capanna che ha costruito durante la festa di Sukkot.

Da sinistra, De Francovich, Pierobon e Popolizio in una scena di «Lehman Trilogy» (foto di Attilio Marasco)

Da sinistra, De Francovich, Pierobon e Popolizio in una scena di «Lehman Trilogy» (foto di Attilio Marasco)

Mi riferisco, con questa osservazione, anche alla circolarità ch’è un altro dei pregi decisivi del testo di Massini: il continuo rimando alla cultura e alla religione ebraica non si pone, naturalmente, solo in rapporto al fatto che i principali personaggi in campo sono, per l’appunto, ebrei, ma diventa un mezzo, potente, per commentare le vicende narrate: a cominciare, tanto per offrire un esempio capitale, dalla citazione biblica che serve a indicare la catastrofe del ’29: «Noach aveva seicento anni quando il diluvio delle acque inondò la terra» (Genesi 7,6). E perciò si chiama Golyat il King Kong con gli occhi a mandorla che il patriarca Bobbie sogna, come incarnazione dei giapponesi piombati a Pearl Harbor, quando la banca Lehman investirà nella seconda guerra mondiale.
Ebbene, rispetto a tutto questo Luca Ronconi ha compiuto un autentico miracolo: la sua regia – che suddivide lo spettacolo in due parti («Tre fratelli» e «Padri e figli») date a giorni alterni e in certi giorni di seguito – non mette in scena, ma, puramente e semplicemente, diventa il testo di Massini così come ho cercato di analizzarlo. E tanto a partire dalla sottolineatura del fatto che, nella circostanza, i personaggi sono tali e, contemporaneamente, sono i narratori di se stessi: ciò che, del resto, traduce esattamente quanto accade ai capitalisti: avviano il meccanismo di produzione e accumulo della ricchezza e poi vengono tagliati fuori, giacché lo stesso va avanti da sé.
Non a caso, i personaggi medesimi fanno solo il gesto di scrivere sulle pareti nomi e frasi, perché, di pari passo, quei nomi e quelle frasi prendono corpo per proprio conto, in sequenze di videografica. E dunque non meno pregnanti risultano le invenzioni di Ronconi riferite al simbolismo: nell’ambiente bianco e grigio predisposto dallo scenografo Marco Rossi, gelido come una corsia d’ospedale, le scritte orizzontali («Lehman Brothers Bank», «Henry Lehman»…) e gli arredi stilizzati spuntano e vengono riassorbiti dal sottopalco, sicché pensiamo in un solo momento – e per l’appunto in termini di simbolo – agli ostacoli dell’atletica sorvolati o abbattuti e alle ascese e cadute cicliche determinate dal capitalismo.
Su tutto domina, memorabile e assolutamente strepitosa, l’invenzione del grande orologio appeso in alto e che, talvolta rotolando da destra a sinistra e viceversa, segna sempre le 7,25 del mattino, l’ora in cui l’11 settembre 1844 Henry Lehman sbarcò sul molo «number four» del porto di New York: giacché il tempo passa, certo, ma il capitalismo è indifferente alla vita della persona Henry Lehman quale si è sviluppata da quell’ora in poi. Al capitalismo interessa solo l’Henry Lehman di oggi, ossia il banchiere Henry Lehman.
Allo stesso scopo – quello di sottolineare tale indifferenza del capitalismo alle sorti degli uomini in quanto tali – obbediscono, per giunta, le vere e proprie «dissolvenze incrociate» che, con acutissima strategia, Ronconi ha disseminato nei punti nevralgici della messinscena: vedi, poniamo, il fondersi dei fuochi d’artificio sparati per festeggiare il matrimonio di Bobbie con Ruth e dei colpi di pistola dei suicidi seguiti al crollo di Wall Street. E così accenno anche alle escursioni nei territori della comicità straniante, come quella della porta ripetutamente sbattuta in faccia a Emanuel dai proprietari delle piantagioni ai quali lui va a chiedere il cotone grezzo.
Insomma, Luca Ronconi spinge ancora oltre l’efficacissima commistione di potenza e leggerezza che già aveva messo in atto nei due precedenti spettacoli dedicati al tema dell’economia, «Lo specchio del diavolo» di Giorgio Ruffolo (2006) e «Inventato di sana pianta» di Hermann Broch (2007). E formidabile, ovviamente, è la squadra d’interpreti che lo affianca: dai protagonisti Massimo De Francovich (Henry Lehman), Fabrizio Gifuni (Emanuel Lehman), Massimo Popolizio (Mayer Lehman), Paolo Pierobon (Philip Lehman) e Fausto Cabra (Robert Lehman) a Martin Ilunga Chishimba (Testatonda Deggoo), Fabrizio Falco (Solomon Paprinskij), Raffaele Esposito (Davidson, Pete Peterson), Denis Fasolo (Archibald, Lewis Glucksman), Roberto Zibetti (Herbert Lehman), Francesca Ciocchetti (Carrie Lauer, Ruth Lamar, Ruth Owen, Lee Anz Lynn) e Maria Laila Fernandez (la Signora Goldman).
Teatro Argentina gremito in ogni ordine di posti, attenzione senza un attimo di pausa, franche risate e, al termine, il coro appassionato di «bravi, bravi». Roba che si vede e si sente rarissimamente, e, temo, in avvenire si vedrà e sentirà sempre meno.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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