Fra desiderio e morte, il «Tram» avanza sulle rotaie della mente

 

Mascia Musy e Massimiliano Gallo in «Un tram che si chiama Desiderio» (le foto che illustrano l'articolo sono di Marco Ghidelli)

Mascia Musy e Massimiliano Gallo in «Un tram che si chiama Desiderio» (le foto sono di Marco Ghidelli)

NAPOLI – «La sua zietta sa che le candele non durano, che la loro fiamma si estingue negli occhi dei bambini, o il vento le spegne, e dopo di questo, si accende la luce elettrica, e tu vedi troppo chiaro…».
Così, fra l’altro, dice Blanche riferendosi al bambino che attende sua sorella Stella. Ed è non solo la battuta-chiave di «Un tram che si chiama Desiderio», ma anche quella centrale e decisiva dell’intera opera di Tennessee Williams: perché ne riassume, e sottolinea come meglio non si sarebbe potuto, il tema fondamentale dell’incapacità di vivere, ossia dell’inadeguatezza a fronteggiare lo scarto fra il passato (da rimpiangere e/o processare) e il presente (da negare e/o subire). Ciò che, in breve, riconduce alla lezione di Ibsen e di Cechov, ma inquadrata, adesso, sullo sfondo della violenza e dell’ordinaria follia che si nascondono dietro le abitudinarie illusioni del «sogno americano».

Tennessee Williams

Tennessee Williams

Infatti, quel celeberrimo dramma porta in scena non sogni, ma sogni che la presa di coscienza della realtà tramuta in incubi: l’immigrato polacco Kowalski scopre che il «paradiso» degli States gli riserva soltanto fiumi di birra e notti di poker, Stella scopre che il fascino sensuale di Stanley nasconde una cupa e animalesca brutalità dell’animo, Blanche scopre che il raffinato poeta che ha sposato intrattiene una volgare relazione omosessuale.
Dunque, si compie tra il desiderio e la morte il viaggio di simili figure sulle loro metaforiche rotaie. Giacché il plot costituisce, senz’alcun dubbio, un’allegoria della vita, nel suo inestricabile groviglio di esaltazioni e sconfitte. Un’allegoria dichiarata e sottolineata dagli stessi nomi – evidentemente simbolici, e intrisi d’amarissima ironia – che connotano personaggi e ambienti: Blanche Dubois in francese significa Bianca del Bosco (ossia un mélange di luce e tenebra), la piantagione di famiglia che lei è costretta a vendere per debiti si chiama Belle Rêve (ossia, sempre in francese, per l’appunto Bel Sogno), il quartiere degradato in cui si svolge l’azione, carcere di violenza e di delirio, vien detto addirittura dei Campi Elisi. E non a caso, poi, a Campi Elisi siffatti conduce, insieme con quello chiamato «Desiderio», anche un altro tram che si chiama «Cimitero».
Insomma, «Un tram che si chiama Desiderio» va collocato senz’alcun dubbio in una dimensione mentale. Di qui l’idea strepitosa che presiedeva quattro anni fa all’allestimento di quel testo da parte di Antonio Latella. Il dottore che alla fine accompagnerà Blanche in manicomio era presente sin dall’inizio, diceva le didascalie, dava agli attori l’attacco delle battute, prendeva appunti. Si poneva, in breve, come il particolare «regista» che è lo psicanalista. E di conseguenza, lo spettacolo diventava una vera e propria indagine clinica, con il plot che si traduceva nel succedersi dei ricordi della protagonista: una che, non dimentichiamolo, si guarda vivere e, dunque, mente (noi ricordiamo, appunto, solo ciò che vogliamo ricordare) per trasformare la realtà effettiva in quella che lei vorrebbe che fosse.
Non dimentichiamo, d’altronde, che al centro di «Tutto su mia madre» di Almodóvar c’è giusto, e richiamato dall’inizio alla fine, «Un tram che si chiama Desiderio». E in quel film sono molti coloro i quali muoiono: ma muoiono proprio per troppo amore della vita, a cominciare da chi, esattamente come Blanche, la vita la recita o, per l’appunto, la sogna.
Tutto questo premesso, vengo, ora, all’allestimento di «Un tram che si chiama Desiderio» che lo Stabile di Napoli e la Fundación Festival Santiago a Mil presentano al Mercadante per la regia del giovane cileno Cristián Plana. La battuta di cui all’inizio (l’ho citata nella storica traduzione firmata da Gerardo Guerrieri per l’edizione Einaudi del «Teatro» di Williams) risulta qui piuttosto tradita, a partire dall’eliminazione delle parole imprescindibili «negli occhi dei bambini». E non so se c’entri la traduzione di Masolino D’Amico utilizzata nella circostanza o una scelta della regia. Ma so che Plana dichiara nel programma di sala quanto segue: «Dirigere ed essere spettatore di un classico come Un tram che si chiama Desiderio è come ricostruire un sogno: ci si dimentica cosa ha voluto scrivere l’autore, già portato in scena da altri, o cosa desideriamo noi stessi. Quello che ho voluto fare come regista è leggere insieme agli attori il testo originale e “pervertirlo”, senza distruggerlo, per avvicinarlo a me e farlo rimbombare ai nostri tempi. Spero che gli spettatori possano riconoscere l’opera originale e trovare familiare questa nuova versione, ma spero anche che ci sia qualcosa che provochi in loro un’inquietante stranezza e che li faccia sentire dentro un’opera diversa».

Giovanna Di Rauso è Stella

Giovanna Di Rauso è Stella

Giuro che in oltre cinquant’anni di attività professionale non m’ero mai imbattuto in un simile connubio di prosopopea e confusione. E potrei, perciò, fermarmi qui. Ma mi tocca l’obbligo di spiegare a chi ha la bontà e la pazienza di leggermi in che cosa si traduce la dichiarazione di Plana. E siccome lui parla anche di «realismo», gli ricordo (cito sempre la traduzione di Guerrieri) questo dialogo fra Blanche e Mitch: Blanche: «Non vorrai mica essere offensivo» – Mitch: «No, realistico» – Blanche: «Non voglio realismi» – Mitch (che non ha capito niente, n.d.r): «Ci credo» – Blanche: «Io voglio un’altra cosa! Incanto! Sì, sì, incanto! E cerco di darlo alla gente! Altero le cose. E se questo è peccato, che io sia dannata! Non accendere la luce!».
Il realismo Tennessee Williams lo riserva all’esterno che circonda Blanche, Stella e Stanley. Ed è un realismo, quello sì determinante, che serve a sottolineare la solitudine dei tre, anch’essa inscritta nella dimensione mentale di cui sopra: una sottolineatura per contrasto, e quindi, non a caso, affidata a particolari minuti ma estremamente concreti: i Treni, la Negra vicina di casa, il Passante, il Marinaio, il Venditore di frittelle e salsicce, la Prostituta, l’Ubriaco…

Antonello Cossia è Mitch

Antonello Cossia è Mitch

Tutto questo viene completamente cancellato. E passi per i Treni, la Negra vicina di casa, il Passante, il Marinaio, il Venditore di frittelle e salsicce, la Prostituta e l’Ubriaco. Ma la cancellazione della Venditrice di fiori cieca, quella no, è assolutamente vietata: l’interminabile, tremenda litania della vecchia donna messicana («Flores. Flores para los muertos») costituisce non solo un «raddoppio» del racconto di Blanche circa i tanti che ha dovuto assistere durante l’agonia e che le dicevano «Non lasciarmi andare!», bensì, e specialmente, lo specchio del «viaggio» al quale ho accennato prima. E ancora non a caso, del resto, la «colonna sonora» di quell’esterno si concentra nel «Blue Piano» che ricorre dall’inizio alla fine ed è, avverte l’importantissima didascalia iniziale, «l’espressione della vita che si svolge qui».
Senza contare la «Varsouviana» che, anch’essa, imperversa ad intervalli più o meno regolari. Plana la sostituisce, per esempio, con un insignificante e del tutto incongruo balletto di seduzione inscenato intorno a Mitch da Blanche e Stella. Così come al posto del «Non lasciarmi andare!» si sente un molto più banale «Non farmi morire»; al posto dell’«Airone», l’alberghetto equivoco (e il suo nome è un’altra sottolineatura per contrasto) frequentato da Blanche a Laurel, compare un «Flamingo» che assicura un maggiore effetto; e, per concludere con gli esempi, al posto del treno per cui Stanley ha comprato il biglietto di ritorno (in «terza») per Blanche arriva una romantica «corriera».
Ma la «perversione» più eclatante e inammissibile il Plana («nome di riferimento dello Stabile di Napoli», si legge in un comunicato stampa) la mette in atto nella sequenza conclusiva. Nel testo di Williams il dottore aiuta Blanche, ch’è caduta in ginocchio, a tirarsi su; e lei, «tenendosi stretta al braccio di lui» (è la didascalia dell’autore), gli dice: «Chiunque lei sia, mi sono sempre affidata al buon cuore degli estranei». Nella versione del regista cileno – sparito il dottore, sostituito da un infermiere che resta immobile e muto sulla soglia – Stanley, che poco prima l’ha in pratica violentata, aiuta Blanche a infilarsi il soprabito; e lei, fatti due o tre passi di lato, mormora: «Ho sempre confidato negli estranei». Sembra, dunque, che si rivolga a Stanley. E io vorrei che qualcuno, di grazia, mi spiegasse che significa.
Basta, via. Gl’interpreti protagonisti agiscono in tale contesto: Mascia Musy è una Blanche che di fronte alle sfuriate di Stanley corre a nascondersi sotto il letto o sotto il tavolo della cucina e al giovane che viene a riscuotere la rata del «Globo» replica con una battuta degna del più abborracciato avanspettacolo: «Io sono abbonata al “Tramonto””»; Massimiliano Gallo è uno Stanley che si abbandona a scoppi di rabbia troppo esagerati ed esibiti rispetto allo spento tran tran che per il resto caratterizza la sua recitazione; e Giovanna Di Rauso è una Stella che, abbigliata come una «figlia dei fiori» in ritardo, sembra una copia conforme della Signorina Giulia che il Plana ci «regalò», sempre al Mercadante, appena nel gennaio scorso. Il più convincente mi pare Antonello Cossia nel ruolo di Mitch.
Basta davvero, adesso. Siamo di fronte a un bozzetto di maniera, a un racconto qualsiasi di una qualsiasi degradazione umana e familiare. E se «Un tram che si chiama Desiderio» (quello di Williams, intendo) fosse solo questo, non si capisce per quale misteriosissimo motivo dovremmo annoverarlo fra i capolavori teatrali del Novecento.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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4 risposte a Fra desiderio e morte, il «Tram» avanza sulle rotaie della mente

  1. Gabriele Riegler scrive:

    Caro Enrico,
    per evitare che mi tacci di presunzione o altro, mi limito a dire che ho riscontrato in questo spettacolo una regia banale e uno svolgimento noioso a cui ha contribuito l’impostazione cantilenante di Massimiliano Gallo (mi ricordava il pessimo doppiaggio di alcuni vecchi film americani!).
    Voto 5 o se vuoi, alla moda di “Repubblica”, “Si può non vedere”.
    Gabriele Riegler

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Gabriele,
    siamo perfettamente d’accordo, allora.
    A presto, con i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

  3. Rita Montes scrive:

    Sono rimasta sconvolta, malissimo per come questo magnifico testo è stato diretto. Mancanze imperdonabili, e interpretato da tutti in maniera altrettanto imperdonabile. La tua recensione è come sempre perfetta.
    Ciao, Enrico.
    Rita Montes

  4. Enrico Fiore scrive:

    Cara Rita,
    queste sono le conseguenze delle manovre di piccolo cabotaggio (tu dai una cosa a me e io do una cosa a te, compari e comparielli siamo belli siamo belli) che stanno affossando il teatro napoletano.
    Grazie per la tua sacrosanta indignazione.
    Enrico Fiore

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