Quando il lotto diventa una fuga dalla realtà

Gianfelice Imparato e Carolina Rosi in una scena di «Non ti pago» (foto di Masiar Pasquali)

Gianfelice Imparato e Carolina Rosi in una scena di «Non ti pago» (foto di Masiar Pasquali)

NAPOLI – Ho sempre pensato che «Non ti pago» – adesso riproposta al Diana dalla Compagnia di Teatro di Luca De Filippo diretta da Carolina Rosi – sia una commedia assai più sottile di quanto sembri.
Non a caso, del resto, costituisce (a parte la fugace comparsa, nel ’42, di «Io, l’erede», testo minore e, per giunta, steso tutto in lingua) l’ultimo titolo della «Cantata dei giorni pari». E come se non bastasse fu scritta nel ’40, cioè quando era già cominciata quella guerra che – lo sapremo da «Napoli milionaria!», la prima opera nuova di Eduardo dopo un lungo silenzio – nel ’45 «non era finita ancora».

Luca De Filippo

Luca De Filippo

Son convinto, insomma, che «Non ti pago» rappresenti un autentico prologo a «Napoli milionaria!». E dunque, la farsesca e paradossale vicenda di Ferdinando Quagliuolo – il titolare del banco lotto che pretende per sé la sostanziosa vincita del suo dipendente Mario Bertolini perché, argomenta, i numeri da giocare gli vennero dettati in sogno dal proprio defunto genitore – è, piuttosto, la dichiarata e lancinante metafora della fuga (e giusto in una dimensione onirica) da una realtà già sentita come minacciosa e crudele: tanto che, sotto specie di risarcimento nei confronti della vita terrena, si vorrebbe imporre agli abitanti dell’aldilà l’assoluto rispetto delle acclarate regole di comportamento (e soprattutto di quelle vigenti tra consanguinei) che nel mondo degli uomini cominciano a vacillare.
Esemplare, in proposito, si rivela l’equazione suggerita dall’avvocato Strumillo al prete don Raffaele: «Del resto, c’è sempre un’affinità: io assisto i vivi e voi assistete i morti». Mentre quella che è la vera e propria battuta tematica, attribuita a Ferdinando Quagliuolo, recita: «E allora facimmo comme a chillo d’ ‘o cunto? Io spendo cinquemilaseicento lire al mese, per candele, trasporto, fiori e messe per mio padre defunto, e il defunto, padre legittimo mio, piglia ‘na quaterna sicura ‘e quattro milioni e ‘a porta a n’estraneo?».

Nicola Di Pinto è Aglietiello  (foto di Filippo Manzini)

Nicola Di Pinto è Aglietiello
(foto di Filippo Manzini)

Ma, rispetto a tutto questo, la regia di Luca De Filippo – ripresa fedelmente a un anno dalla sua prematura scomparsa – privilegia il versante della farsa: a cominciare dall’invenzione continua di gag, come (nel testo accade una sola volta) il moltiplicarsi delle bottiglie di pomodoro che cadono di mano a Ferdinando quando compare Bertolini, per proseguire, poniamo, con il trasformarsi in donna di Vittorio Frungillo, il susseguirsi di tuoni e fulmini iettatorii, il dispiegarsi di pantomime da comica finale (indicativa quella fra Aglietiello e lo stesso Bertolini) e, infine, la riduzione a evidenti macchiette dei personaggi di Bertolini, appunto, dell’avvocato Strumillo e della cameriera Margherita.
È in tale contesto che si colloca la prova degl’interpreti. Ma qui, innanzitutto, va fatto un discorso particolare circa i due protagonisti, Gianfelice Imparato e Carolina Rosi, giacché sul primo incombeva la responsabilità di subentrare nel ruolo di Ferdinando Quagliuolo a Luca De Filippo e la seconda doveva trovare il coraggio di confrontarsi in scena, nella stessa commedia, con un altro attore al posto del marito. In breve, nel loro caso (ma, poi, è il caso dell’intero spettacolo) non sai dove finisce il teatro e dove comincia la vita.
Il risultato è una cosa straordinaria. Gianfelice offre una prova da antologia, perché, restituendo perfettamente il mélange di nevrosi, instabilità emotiva, testardaggine, paura, invidia, dispotismo, aggressività e livore che connota il personaggio, spinge Ferdinando Quagliuolo nella schiera dei grandi «malati» molièriani; e Carolina disegna di Concetta un ritratto che trova un’altrettanto ricca gamma di sfumature, dalla rassegnazione della moglie sopraffatta dalle manie del marito alla ferina rivolta della madre che, contro di lui, si batte in nome della libertà e dignità della figlia. Ma, nello stesso tempo, Gianfelice Imparato e Carolina Rosi escono dal mestiere e dalla tecnica per determinare un che d’imponderabile: si direbbe, in termini cinematografici, che passano dalla panoramica sulla drammaturgia allo zoom sul sentimento.

Massimo De Matteo è Mario Bertolini  (foto di Filippo Manzini)

Massimo De Matteo è Mario Bertolini
(foto di Filippo Manzini)

D’altronde, tutto lo spettacolo è qualcosa di singolare. Sembra aver acquistato un’energia nuova, che, evidentemente, si può spiegare solo con la volontà comune di coloro i quali vi partecipano di rendere omaggio alla memoria di Luca De Filippo. Accade assai raramente nel teatro. E così anche ciascuno degli altri interpreti, senza distinzione bravissimi, va oltre la bravura. Perciò li nomino uno per uno: a partire dai comprimari Nicola Di Pinto (Aglietiello), Massimo De Matteo (Bertolini) e Giovanni Allocca (Strumillo) per continuare con Gianni Cannavacciuolo (Don Raffaele Console), Paola Fulciniti (Erminia e Carmela), Carmen Annibale (Stella), Viola Forestiero (Margherita), Federica Altamura (Vittorio Frungillo) e Andrea Cioffi (Luigi Frungillo).
Un’emozione, dunque, ti prende al momento conclusivo degli applausi, per solito nient’altro che un rituale stanco: a ringraziare dal palcoscenico, tenendosi per mano con i compagni, una Carolina Rosi che si divide tra felicità e rimpianto e un Gianfelice Imparato che pare quasi voler nascondersi.
Posso concludere, allora. Se al termine della «prima» di quest’allestimento di «Non ti pago» all’Augusteo, il 23 ottobre dell’anno scorso, a Luca De Filippo toccò il compito di ricordare, commosso, Francesco Caccavale, amico e ultimo rappresentante degl’impresari di tradizione, oggi tocca a noi il compito di ricordare, con altrettanta commozione, Luca De Filippo, uno degli ultimi rappresentanti dei registi e attori di tradizione. Un ben triste parallelo. Ma accompagnato – visto l’impegno che Carolina mette nell’onorare l’eredità di Luca – dalla speranza che la tradizione di cui parliamo possa ancora produrre frutti preziosi.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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