Torna alla grande «il nostro imbucato speciale»

 

Benedetto Casillo, protagonista dell'allestimento di «Caviale e lenticchie» in scena al Totò (foto di Fiorella Passante)

Benedetto Casillo, protagonista dell’allestimento di «Caviale e lenticchie» in scena al Totò (foto di Fiorella Passante)

NAPOLI – Poiché, fra noi, era consuetudine che ci scambiassimo da vicino gli auguri di Natale, la sera del 22 dicembre del 1977 andai a trovare Nino Taranto nel suo camerino del Politeama. Di lì a poco avrebbe debuttato con «Caviale e lenticchie», la popolarissima commedia che Giulio Scarnicci e Renzo Tarabusi avevano scritto vent’anni prima e che lui aveva con ilare sapienza adattato in napoletano, facendone un proprio autentico e altrettanto celebre cavallo di battaglia. Ma era molto abbattuto, Nino: alle due della notte precedente, mentre tornava a casa in tassì col regista Gennaro Magliulo, l’avevano rapinato e gli avevano anche tirato un pugno in faccia, quasi a mo’ di sfregio; ed era avvilito perché gliel’avevano fatto, questo, proprio nella sua Napoli: in quella Napoli in cui – era la prima cosa che metteva nei contratti – doveva irrinunciabilmente stare a Natale, per l’appunto, e a Pasqua.
A me, però, fu facile predirgli che, appena messo il piede sulle tavole del palcoscenico, avrebbe dimenticato tutto. E tanto avvenne. Sicché cominciai la mia recensione su «Paese Sera» con questa epigrafe: «Si pensa a una di quelle vecchie “carrette” logorate dai mari di mezzo mondo: ha il motore asmatico, che spesso s’imballa, e non sai mai se ce la farà ad arrivare in porto. Però a bordo c’è un motorista, che ha la stessa età della nave e che sembra uscito dal classico film di guerra americano: lui sa dove mettere le mani fra le molle e i pistoni arrugginiti, e così la “carretta” arriva in porto magari prima delle altre unità della flotta, di lei più giovani e attrezzate».
Naturalmente, la «carretta» alla quale alludevo era, giusto, «Caviale e lenticchie», una buona, onesta e innocua farsa imbastita come la tradizione del genere comanda: e che dunque, intorno a un don Liborio Lamanna di professione invitato (nel senso che si autoinvita a matrimoni, battesimi e simposi scientifici per arraffare dolci e bottiglie che poi vende per sfamare la famiglia), fa muovere il solito e scontato armamentario di finzioni, equivoci, scambi di persone, falsi dottori che nella diagnosi leggono «frittura del perone» e non meno falsi cadaveri che entrano ed escono dal baule; e il «motorista» era, altrettanto naturalmente, l’impareggiabile Nino Taranto.

Scarnicci (a sinistra) e Tarabusi (a destra) con Nino Taranto

Scarnicci (a sinistra) e Tarabusi (a destra) con Nino Taranto

Ebbene, e fatte le debite proporzioni, posso tranquillamente riprendere quell’epigrafe a proposito dell’allestimento di «Caviale e lenticchie» che la «Suoni e Scene» presenta ancora oggi e domani al Totò nell’adattamento e per la regia di Benedetto Casillo. Con una premessa: Liborio Lamanna, che qui si chiama Ferdinando Cafiero, è un personaggio eterno; ed oggi, infatti, continua ad accompagnarci anche nella realtà, sotto specie di un giornalista ch’è stato insignito sul campo del titolo onorifico di «nostro imbucato speciale», per la sua immancabile presenza dovunque (ai vernissages, alle presentazioni di spettacoli, alle conferenze…) ci sia, o lui spera che ci sia, qualcosa da mangiare.
Comunque, l’adattamento di Casillo si traduce – non senza tener conto, insieme, del testo originale e della sua rivisitazione da parte di Taranto – in un’autentica girandola d’invenzioni, e tutte nello stesso tempo gustose e pertinenti, in quanto fedeli allo spirito della commedia e intese a sottolinearne e amplificarne i significati (che pure non mancano) più profondi. A partire dallo spostamento della trama nel periodo fine anni Cinquanta-inizio anni Sessanta: con annessi rimandi, poniamo, a Mario Riva, al «Musichiere», a «Lascia o raddoppia», a Carnera, allo stadio del Vomero e a Vinicio e Pesaola.
Era, lo sappiamo, un’epoca semplice, pervasa dalla speranza di una rinascita. E non a caso, allora, lo spettacolo s’apre con «Domenica è sempre domenica»: di qui, in fondo, la paradossale «filosofia» praticata da don Ferdinando, che si ritiene, ed è in effetti, un innocente e un artista. Infatti, quando gli fanno osservare che l’invitato che porta via roba da un matrimonio è un ladro, lui replica serafico: «Certo, ma io non sono un invitato»; e alla moglie che lo sprona a trovarsi un lavoro degno del nome risponde piccato: «V’ ‘o ‘mmagginate Leopardi a purta’ ‘na cardarella ‘ncopp’ ‘a spalla?».

Patrizia Capuano è Nannina (foto di Fiorella Passante)

Patrizia Capuano è Nannina (foto di Fiorella Passante)

Non meno rilevanti, a proposito della speranza e del paradosso, sono del resto altre due invenzioni, che cito a titolo d’esempio: don Ferdinando, nel dire a un certo punto di aver sognato che il figlio facesse il magistrato, ripete, insistendovi, la parola «sognato»; e quando si tratta di esibire a un comitato di beneficenza, per spillargli quattrini, un nonno anziano e malandato, ricorre a un ex pompiere paralitico e rimbambito che salvava, sì, le persone dal fuoco, ma contemporaneamente le faceva morire affogate dalla troppa acqua che gettava loro addosso.
Tanto senza contare l’iperbole di quel Ferdinando che comincia la sua «carriera» addirittura a dodici anni, infilandosi, nientemeno, nella cerimonia per la firma dei Patti Lateranensi; e che, scoperto da una guardia svizzera che parla napoletano, cerca di cavarsela asserendo d’essere figlio del papa.
Parlo, in breve, di una comicità che fa rima con allusività. E il resto, tra richiami a Feydeau con il continuo aprirsi e chiudersi di porte e persino a «Filumena Marturano» con il distribuirsi i compiti di accompagnatori all’altare, è affidato alla bravura degl’interpreti in campo: e fra coloro i quali affiancano Benedetto Casillo, che cesella il personaggio di Ferdinando Cafiero nel segno dell’artigianato di rango che gli è proprio, segnalerei almeno la sempre puntuale Patrizia Capuano (Nannina, la convivente di Ferdinando), Matteo Salsano (Alfredo) e Chiara De Vita (Olimpia).
Mi sembra, in conclusione, di poter riprendere – della recensione di «Caviale e lenticchie» pubblicata nel 1977 su «Paese Sera» – anche il finale: in fondo è questione di teatro, che oggi come sempre c’è o non c’è.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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