Pier Paolo Pasolini, il figlio che «partorì» sua madre

Candida Nieri in «MA», lo spettacolo di Latella in scena al Nuovo (foto di Brunella Giolivo)

Candida Nieri in «MA», lo spettacolo di Latella in scena al Nuovo (foto di Brunella Giolivo)

Ripubblico quasi integralmente la recensione di «MA» (lo spettacolo è adesso al Nuovo)che scrissi nell’agosto dell’anno scorso dopo il suo debutto al Piccolo Arsenale di Venezia nell’ambito della Biennale Teatro.  

NAPOLI – «Vergine Madre, figlia del tuo figlio»… Sì, bisogna proprio partire dall’incipit della preghiera di San Bernardo (Paradiso, XXXIII, 1) per inquadrare il «MA» di Antonio Latella.
Infatti, si affronta qui la figura della madre nell’opera di Pier Paolo Pasolini. E quello di Pasolini per la madre fu un amore totale e totalizzante, sino al punto di fissargli la vita sessuale in una forma chiusa e per sempre data: Pasolini non poté amare alcuna donna giusto perché amava la madre come manifestazione ontologica della Donna; e dunque, essendo il figlio che un simile amore aveva concepito, partorì a propria volta sua madre.
Di conseguenza – nel solco, per l’appunto, di un’identificazione col Cristo – Pasolini, in specie il Pasolini poeta, contemporaneamente attribuì alla madre: in quanto generato, la colpa di avergli dato un destino di vittima sacrificale («è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia»); e in quanto generatore, una missione salvifica nei confronti del mondo («Tutto intorno ferocemente muore, / mentre non muore il bene che è in lei»).
Tutto questo Linda Dalisi – autrice di un testo denso e affascinante e commovente, che pesca, poniamo, in «Mamma Roma», «Petrolio», «Teorema», «Medea» e, naturalmente, «Il Vangelo secondo Matteo», in cui Pasolini volle calare sua madre nei panni della Madonna ai piedi della Croce – lo riassume ed esalta nei seguenti due versi che la Vergine rivolge a Gesù: «Figlio mio, padre mio. / Ti sono figlia. Dopo che madre».
Dal canto suo, Latella ricava da un quadro del genere uno spettacolo nello stesso tempo essenziale e travolgente. L’attrice protagonista, seduta su uno sgabello o in piedi, sta dall’inizio alla fine con i piedi medesimi infilati in due giganteschi scarponi. E contempla un microfono che tiene fra le mani deposto su un fazzoletto bianco. E a tratti appoggia su quel fazzoletto anche il proprio viso, accanto al microfono. E alla fine s’allontana ciabattando rumorosamente con gli scarponi ma dopo aver lasciato in terra due minuscole scarpette.
In breve, «MA» consta, insieme, della rappresentazione come un viaggio dell’anima e dell’argomento come un’offerta votiva (il dono di sé, dell’intero sé, alla madre con la quale, ripeto, Pasolini s’identificò totalmente). Tanto che, e davvero non a caso, il titolo allude sia all’espressione del dubbio sia alla prima sillaba della parola mamma pronunciata dal bambino che richiamano le scarpette citate.
Splendida, e assolutamente memorabile, è poi la prova di Candida Nieri. Trasforma il corpo in un perfetto «doppio» dell’inesorabile discesa verso il basso che mette in campo la drammaturgia della Dalisi: a ripercorrere il cammino umano di quel figlio da Pasolini, il raffinato intellettuale profetico, a Pier Paolo, la misera carne sanguinolenta abbandonata in una periferia del silenzio. E come dire, per esempio, di quando Candida, scivolando lentissima giù dallo sgabello, assimila alla morte di un cigno la caduta di Pasolini sotto i colpi di chi lo uccise?

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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