Quel Presepe che spinge Nennillo a uccidere il padre

 

In senso orario, Monica Piseddu (Concetta), Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Musella (Tommasino) nella sequenza finale di «Natale in casa Cupiello», in scena al San Ferdinando per la regia di Antonio Latella (le foto che illustrano l'articolo sono di Brunella Giolivo)

In senso orario, Monica Piseddu (Concetta), Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Lino Musella (Tommasino) nella sequenza finale del «Natale in casa Cupiello» diretto da Antonio Latella (le foto sono di Brunella Giolivo)

NAPOLI – Attenzione alla sequenza conclusiva. Il letto in cui muore Luca Cupiello, assistito da una Concetta in vesti di santa da pittura devozionale, diventa una mangiatoia. Io ho subito pensato al Vangelo, a quello, s’intende, di Luca: «E partorì il figliuolo suo primogenito, […] e lo pose a giacere in una mangiatoia» (2,7). E così Latella riproduce e potenzia il dettato dell’ultima didascalia di Eduardo: che dice come lo sguardo di Luca Cupiello morente si perda nella visione di «un Presepe grande come il mondo» e di «un Gesù Bambino grande grande». Latella, puramente e semplicemente, identifica Luca Cupiello con quel Bambino; e, un’altra folgorante invenzione, ricopre interamente il suo corpo, nella mangiatoia, con un tappeto di foglie di lattuga a disposizione di un bue e di un asinello di peluche portati in scena da due bambini. Ma era stato proprio Tommasino – il Nennillo di Concetta… – a far morire il padre, soffocandolo deciso e impassibile con un cuscino.
Parliamo della messinscena di «Natale in casa Cupiello» firmata per l’appunto da Antonio Latella e che il Teatro di Roma presenta al San Ferdinando. E giusta la sequenza citata, posso tranquillamente affermare che non avevo mai visto un allestimento di commedie di Eduardo tanto radicalmente innovativo e, tuttavia, così fedele al testo originale. Voglio dire questo, in poche parole: qui non c’è una sola parola che non sia di Eduardo, così come arrivano puntualissime tutte le risate «scritte a copione»; ma, contemporaneamente, vien fuori tutta la ferocia che in precedenza non era mai salita in superficie. E adesso attendo le reazioni dei «puristi».
Non penso, naturalmente, agl’imbonitori tuttologi che, travestiti da giornalisti, pretendono di spiegare il mondo senza mai mettere il naso fuori dalle loro redazioni-galera. Penso, piuttosto, a taluni soloni universitari che fino a ieri s’erano occupati di tutt’altre faccende ed ora, folgorati (dai soldi) sulla via di Eduardo (senza che, peraltro, a teatro si vedano mai), se ne stanno appollaiati sulle loro cattedre prontissimi a bacchettare chiunque s’azzardi a compiere il delitto di lesa maestà: chiunque, cioè, si rifiuti di collocare Eduardo al posto di San Gennaro, implorando genuflesso che compia il miracolo di far passare la Napoli di oggi per quella «milionaria» del ’43.

Michelangelo Dalisi è Pasquale

Michelangelo Dalisi è Pasquale

Per mio conto, ho «i documenti», come asserirebbe Alberto Saporito. Credo che Eduardo mi stimasse, se è vero che volle (e me lo chiese in presenza di un altro grande, Sergio Bruni) che gli dessi del tu. E tuttavia questo non m’impedisce (non deve impedirmi) d’essere convinto che lui sia stato, sì, un formidabile costruttore di altrettanto formidabili macchine drammaturgiche, ma non – ciò che sostengono i soloni di cui sopra – il più grande autore teatrale italiano del Novecento. Ammesso che simili classifiche abbiano un senso, il più grande autore teatrale italiano del Novecento è stato Pirandello, che, del resto, Eduardo ha più volte dichiarato di considerare il suo maestro. E infatti, ritengo che, come ho sostenuto in varie occasioni, «Natale in casa Cupiello» sia una sorta di equivalente napoletano dell’«Enrico IV».
Pensate un po’ ai personaggi protagonisti delle due opere: entrambi sono impegnati nel disperato tentativo d’imprigionare la vita – ch’è un susseguirsi di momenti di disgregazione, per giunta slegati l’uno dall’altro – in una forma unica, per sempre data e per sempre riconoscibile. Per l’Enrico IV di Pirandello quella forma è il ruolo dell’imperatore medievale, per il Luca Cupiello di Eduardo è il presepe. E ora ricordate l’avvertimento di Enrico IV a colui che egli finge di scambiare per l’abate Ugo di Cluny: «Monsignore, però, mentre voi vi tenete fermo, aggrappato con tutte e due le mani alla vostra tonaca santa, di qua, dalle maniche vi scivola, vi scivola, vi sguiscia come un serpe qualche cosa, di cui non v’accorgete. Monsignore, la vita! E sono sorprese, quando ve la vedete d’improvviso consistere davanti così sfuggita da voi».

Valentina Acca è Ninuccia

Valentina Acca è Ninuccia

La «sorpresa», rispettivamente, sarà per Enrico IV l’uccisione da parte sua di Tito Belcredi e per Luca Cupiello la scoperta che la figlia Ninuccia tradisce il marito che lui le aveva imposto. E all’uno e all’altro non resterà che prenderne atto: Enrico IV rivolgendo ai propri «consiglieri segreti» la battuta conclusiva «Ora sì… per forza… qua insieme, qua insieme… e per sempre!» e Luca Cupiello – vedi la didascalia finale che ho prima richiamato – disperdendo il suo sguardo di morente su «un Presepe (badiamo all’iniziale maiuscola, n.d.r.) grande come il mondo». Entrambi, cioè, ricorreranno ancora una volta alla forma prescelta, e con estrema e strenua lucidità, per cancellare l’ennesimo momento di disgregazione.
Sono questi gli argomenti che, sulla traccia delle mie conversazioni con Eduardo, ho esposto ad Antonio Latella, spingendolo – come lui ha ricordato nella sua autobiografia «La misura dell’errore», pubblicata da Caracò con la cura di Emanuele Tirelli – ad affrontare l’opera del maggiore dei De Filippo. E vengo, quindi, all’eco che mi sembra di coglierne nell’allestimento di «Natale in casa Cupiello» di cui discorriamo.
Basterebbe considerare la scena iniziale, connotata, in pari tempo, dalla proverbialità e dall’allusività. Sui personaggi, schierati al proscenio proprio come quelli in cerca d’autore di Pirandello, cala una gigantesca stella cometa. E subito dopo – al centro della fila l’Eduardo/Luca Cupiello che traccia nell’aria il gesto di scrivere – gli attori prendono a interpretare, insieme, non solo le battute ma anche le didascalie che costituiscono e illustrano, appunto, i loro rispettivi personaggi.

Giuseppe Lanino è Vittorio Elia

Giuseppe Lanino è Vittorio Elia

Si tratta, dunque, di un gioco di specchi fra l’idea e la sua traduzione nella scrittura, ovvero fra la vita e la sua rappresentazione sul palcoscenico: un gioco, praticato alternativamente nei modi e coi ritmi della sceneggiata o del rap, che si spinge, nientemeno, a nominare perfino i segni d’interpunzione e il tipo di accento, grave o acuto, posto sulle vocali. Ecco perché, poi, gli attori hanno gli occhi bendati di nero sino al momento in cui si perdono definitivamente nei personaggi che interpretano, ossia nella Forma per definizione. E di qui l’ossessiva reiterazione della voce registrata di Eduardo che pronuncia la battuta: «Mò miettete a fà ‘o Presebbio n’ata vota…». E di qui, ancora, l’Eduardo che, chiuso in una gabbia, continua parossisticamente a scrivere sulle sue pareti di vetro. Per giunta, quella gabbia Concetta se la trascinerà su un carretto molto brechtiano: col che – assimilando, cioè, la moglie di Cupiello a Madre Courage – Latella evoca a proposito di Eduardo lo stesso oscillare «tra realismo e mistificazione» che Roberto Alonge individuò, manco a dirlo, nel teatro di Pirandello.
Questo senza contare la citazione dell’aria di Basilio «La calunnia è un venticello»: non dipende, ovviamente, solo dal fatto che «Il barbiere di Siviglia» è nominato nel testo, dipende soprattutto dal fatto che il melodramma è la forma chiusa per eccellenza. E non a caso a cantare quell’aria è il dottore, colui, cioè, che constata come Luca Cupiello sia ormai prossimo alla morte.

Maurizio Rippa è il Cieco

Maurizio Rippa è il Cieco

In breve, qui i personaggi si trasformano in un equivalente delle serve di Genet secondo la lettura che ne diede Sartre: «ciascuna di esse non vede nell’altra che sé stessa distante da sé». Mentre il cieco che si tiene costantemente stretto al petto uno scimmiotto trasmette l’assurdità definitiva di una simile, inane coazione a ripetere. Che fa il paio con l’abbuffata tradizionale della Vigilia, qui battuta in breccia dall’iperbolico e sarcastico e grottesco andirivieni di maiali, polli, tacchini e pecore (vi si aggiunge addirittura un cammello) di pezza.
Adesso è davvero superfluo attardarsi sulla bravura degl’interpreti. Li cito tutti: i protagonisti Francesco Manetti (Luca Cupiello), Lino Musella (Tommasino), Monica Piseddu (Concetta), Michelangelo Dalisi (Pasquale), Valentina Acca (Ninuccia) e poi, via via, Francesco Villano (Nicola), Leandro Amato (il portiere Raffaele), Giuseppe Lanino (Vittorio Elia), Maurizio Rippa (il dottore e il cieco), Annibale Pavone (Carmela), Emilio Vacca (Rita) e Alessandra Borgia (Maria). E non meno rilevante appare il lavoro compiuto dalla «dramaturg» Linda Dalisi, dagli scenografi Simone Mannino e Simona D’Amico, dal costumista Fabio Sonnino, dall’autore delle musiche Franco Visioli e dal «light designer» Simone De Angelis.
Ma, per chiudere, lascio la parola alle note di regia di Latella, illuminanti come rarissimamente sono le note di regia: «Per ereditare qualcosa bisogna accettare il fatto di non essere più figli ma “orfani”. Solo quando accetti di essere orfano hai la capacità di ereditare e di capire cosa stai ricevendo».

                                                                                                                                            Enrico Fiore

P.S. Questo articolo è un ampliamento e un approfondimento della recensione che – subito dopo aver visto la «prima» nazionale dello spettacolo al Teatro Argentina di Roma – il 7 dicembre del 2014 pubblicai ne «Il Mattino», con cui allora collaboravo.

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