Caligola, il bisogno dell’impossibile e l’impossibilità del tragico

Katja Jung e Thiemo Strutzenberger in una scena del «Caligola» dato al Theater Basel (le foto dello spettacolo sono di Sandra Then)

Katja Jung e Thiemo Strutzenberger nel «Caligola» dato al Theater Basel (le foto sono di Sandra Then)

BASILEA – Su un piano inclinato, si fronteggiano Elicone e Caligola: l’uno in piedi, in un completo dello stesso colore arancione del pavimento e delle pareti (non c’è differenza fra lui e l’ambiente, il personaggio diventa un elemento qualsiasi del «paesaggio»), e l’altro, in una sorta di tuta mimetica, che striscia sulle ginocchia con i pantaloni abbassati fino alle caviglie (c’è una differenza totale fra lui e l’ambiente, il personaggio si pone, rispetto a quel «paesaggio», come un autentico alieno). E se pure si stabiliscono fra i due un rapporto e una comunicazione, avviene soltanto sul piano fisico dei comuni bisogni elementari: Elicone trangugia fette di mortadella e Caligola spilluzzica noci, con il rumore dei gusci schiacciati che, registrato, si fa sentire a lungo, proprio per richiamare il vuoto automatismo di tali bisogni.

Albert Camus

Albert Camus

È la sequenza iniziale dell’allestimento del «Caligola» di Camus presentato nella Schauspielhaus del Theater Basel per la regia di Antonio Latella e la drammaturgia di Federico Bellini ed Ewald Palmetshofer. E anticipa e sintetizza con acume e pregnanza straordinari (anche grazie all’inventiva dell’impianto scenografico di Simone Mannino e dei costumi di Simona D’Amico) tutti i contenuti e le forme di uno spettacolo che, per molti versi, risulta dirompente e affascinante insieme. Ma prima di procedere ad analizzarlo, occorre illustrare i temi – non pochi e non semplici – sviluppati nel testo da cui discende.
Come sappiamo, di «Caligola» Camus scrisse, nell’arco di vent’anni, tre versioni diverse: la prima (intitolata «Caligula ou le joueur») è databile fra il ’38 e il ’39, la seconda venne compiuta fra il ’41 e il ’44 e l’ultima vide la luce nel ’58. Qui si adotta la versione del ’58. E davvero non a caso. Perché, in questa terza versione, manca, ad esempio, il vaneggiante colloquio che in quella datata 1941 Caligola immaginava di avere con la morta Drusilla, la sua sorella-amante: manca, cioè, la dimensione dell’amore e del dolore per la sua perdita che avrebbe potuto, temette Camus, suonare come una mistificazione del personaggio in chiave «romantica».
Ma eccoci al dunque. Le battute-chiave pronunciate da Caligola sono le seguenti: «Gli uomini muoiono e non sono felici» e «Questo mondo, così com’è, non è sopportabile». E di qui, aggiunge l’imperatore, «il bisogno della luna, o della felicità, o dell’immortalità: di qualche cosa, poniamo, di pazzesco, purché non sia di questo mondo».

Steffen Höld

Steffen Höld

Parliamo, allora, di «un bisogno d’impossibile», e della decisione, da parte di Caligola, di «rendere possibile ciò che non lo è». Si spiega così quella che è la caratteristica decisiva del dramma in questione e, in definitiva, dell’opera intera di Camus: un’ambiguità (o, più esattamente, ambivalenza) che deriva dalla continua oscillazione fra il nichilismo e l’umanesimo.
Ancora non a caso, del resto, in «Caligola» s’avvertono echi dostoevskiani per un verso e tolstoiani per l’altro. E ricordo, per inciso, che nel 1938, proprio mentre s’avviava a terminare la prima stesura di quel testo, Camus interpretò il ruolo di Ivan nella riduzione teatrale de «I fratelli Karamazov» firmata da Copeau e allestita dal Théâtre de l’Equipe, la compagnia indipendente fondata dallo stesso Camus dopo la sua espulsione dal Partito Comunista.
Insomma, si dispiega in «Caligola», sul filo del paradosso, la tragedia di una lucida intelligenza: Caligola non è pazzo, scatena il caos e il terrore solo perché – giunto a rendersi conto dell’irrimediabile assurdità che governa l’universo – vuole che se ne rendano conto tutti gli uomini.
Ma, nella prefazione all’edizione americana del testo, Camus definì quel dramma come «la storia del più tragico degli errori»; perché, disse del personaggio Caligola, «se la sua verità è di negare gli dei, il suo errore è di negare gli uomini». E infatti, poco prima di essere ucciso dai congiurati capeggiati da Cherea, Caligola riassume la propria tragedia così: «Questa è la felicità: questa insopportabile liberazione, questo disprezzo universale; il sangue, l’odio intorno a me; questo incomparabile isolamento dell’uomo che tiene la vita intera sotto il suo sguardo».

Ingo Tomi

Ingo Tomi

La morte di Caligola, dunque, non è quella di un tiranno qualsiasi, conseguenza inevitabile del crollo del suo potere. «Caligola – dice ancora Camus – acconsente a morire perché ha capito che nessun essere può salvarsi da solo e che non si può essere liberi se non contro gli altri uomini». In fondo, è per questo che l’imperatore viene pugnalato proprio mentre manda in frantumi, lanciandogli contro uno sgabello, lo specchio davanti al quale parlava con la sua immagine riflessa: la morte di Caligola coincide con la sopravvenuta coscienza dell’impossibilità di vedersi al di fuori di sé e, quindi, dell’impraticabilità di qualsiasi rapporto con l’altro da sé.
Ebbene, la regia di Latella illumina un simile, vertiginoso intrecciarsi del plot con istanze dell’inconscio e pulsioni filosofico-ideologiche attraverso una scelta nello stesso tempo conseguente, perspicace e storicizzante: quella di sottolineare non solo la distanza fra Caligola e quanti gli stanno intorno, ma anche e specialmente la distanza fra Caligola e noi, spettatori di oggi. Di un oggi in cui non si sente più il bisogno dell’impossibile e, al contrario, ci si addormenta nella convinzione che abbiamo tutto il possibile che si possa immaginare e desiderare.

Thomas Reisinger e Martin Hug

Thomas Reisinger e Martin Hug

Faccio, al riguardo, appena qualche esempio: i patrizi Lepido e Muzio, vestiti in modo uguale, vengono ridotti in mutande e dotati dei calzettoni a righe orizzontali e delle scarpe dalla punta gonfia propri dei clown; le «stelle lucenti» di Caligola, quelle che intessono «l’altra faccia» del cielo che «vacilla di colpo» mentre l’«oro del sole» lo sta abbandonando, diventano le semplici stelle «brillarelle» di «Roma nun fa’ la stupida stasera»; a fronte del Caligola che afferma: «Non mi sono mai masturbato», Cherea lo fa, nevroticamente e interminabilmente, dopo che ha svelto il pavimento; c’è un lungo bacio sulla bocca, da gay impenitente, dispensato da quel Caligola che nel testo di Camus chiama il vecchio senatore «bella mia»; mentre scorre un video (di Matteo Sbaragli) sul famoso cavallo di Caligola, Elicone, Cesonia e lo stesso Caligola compaiono in abiti settecenteschi e parlano a tratti in francese, a rimarcare la leziosità di un cerimoniale ch’è l’opposto della vita; e, per chiudere con gli esempi, Caligola, in tutù nero, si trasforma in una marionetta disarticolata, avendo alle spalle, con la sala illuminata, un Cherea che ripetutamente gli punta contro una pistola senza mai sparare.

Vincent Glander

Vincent Glander

Già, la morte di Caligola non può darsi nemmeno sotto specie di una citazione de «La morte del cigno». Qui Caligola non muore, la sua morte consiste nell’andare a sedersi tra gli spettatori, al cospetto di un Elicone che trangugia l’ultima fetta di mortadella e di un Cherea che, dopo aver usato la sua pistola per schiacciare alcune delle noci che come un vero e proprio torrente s’erano riversate sulla scena, continua a puntarla contro l’imperatore emettendo inarrestabilmente il sibilo strascicato con cui i ragazzini, nei loro giochi da western, imitano il suono dello sparo.
La rappresentazione è finita, la rivoluzione è abortita e l’intellettuale non può, per l’appunto, che masturbarsi, con le chiacchiere che su di essa insiste a partorire. E su tutto, come simbolo dell’odierna impossibilità del tragico, piovono una ricorrente risata stordita e Fred Buscaglione che canta la sua eterna «Guarda che luna».
Non mi resta, per concludere, che accomunare in un unico elogio tutti gl’interpreti di questo spettacolo, bellissimo, intelligente e – lo si sarà capito – spietato e divertente insieme: Thiemo Strutzenberger (Caligola), Katja Jung (Cesonia), Steffen Höld (Elicone), Vincent Glander (Scipione), Ingo Tomi (Cherea), Thomas Reisinger (Lepido) e Martin Hug (Muzio). Espressionismo più leggerezza, una vera rarità.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

2 risposte a Caligola, il bisogno dell’impossibile e l’impossibilità del tragico

  1. Leo Coviello scrive:

    Recensione meravigliosa… è tutto nitido, ero lì, seduto a guardare e a vivere lo spettacolo… Grazie!!!
    Leo Coviello

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie a Lei per l’attenzione e l’elogio che mi riserva.
    Voglia gradire i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *