Un Marchese del Grillo
che somiglia a Rugantino

Enrico Montesano è Onofrio del Grillo

Enrico Montesano è Onofrio del Grillo

NAPOLI – Il teatro non è il cinema, Massimo Romeo Piparo non è Mario Monicelli, Emanuele Friello non è Nicola Piovani e, soprattutto, Enrico Montesano non è Alberto Sordi. Potremmo riassumere così il discorso su «Il marchese del Grillo», l’adattamento in forma di commedia musicale del celebre film del 1981 che, prodotto dal Sistina, ha aperto la stagione dell’Augusteo.
Una constatazione ovvia, davvero degna dello scarto fra la modernizzazione in Lapalisse dell’originario cognome La Palice? Certo, lo è. Ma serve a dare agli spettatori potenziali un’indicazione precisa e utile: andate all’Augusteo senza fare paragoni con la caratura di quel film, perché solo in tal modo non resterete delusi e, al contrario, potrete apprezzare uno spettacolo che – fatte, per l’appunto, le debite proporzioni rispetto al vero e proprio «cult» cinematografico da cui discende – non demerita per quanto riguarda le sue caratteristiche specifiche.
Del resto, gli autori dell’adattamento – Gianni Clementi e gli stessi Montesano e Piparo – seguono passo passo la ben nota trama centrata sugli scherzi, le beffe e gli amorazzi con cui il popolare personaggio protagonista, giusto il marchese Onofrio del Grillo, guardia nobile di Papa Pio VII, riempie il vuoto delle sue giornate. E dunque ritornano, poniamo, i paoli incandescenti che bruciano le mani ai mendicanti, la relazione clandestina con Faustina, l’incontro con l’attrice francese nel quadro dell’invasione dello Stato Pontificio da parte di Napoleone e, naturalmente, lo scambio di persona con il carbonaio ubriacone Gasperino.
Al cinema, d’altronde, allude anche l’impianto scenico di Teresa Caruso, basato su una pedana mobile circolare che riproduce in qualche misura l’effetto della dissolvenza incrociata, facendo uscire arredi e personaggi da un lato mentre altri ne compaiono dal lato opposto. Funziona un po’ come il girare delle figure messe in moto dagli orologi-carillon sulle torri delle grandi piazze. E il film di Monicelli in particolare viene richiamato persino dalla fisionomia e dagli atteggiamenti di taluni degl’interpreti in campo: vedi la somiglianza di Andrea Pirolli, Roberto Attias e Tonino Tosto – qui, rispettivamente, nei ruoli del falegname ebreo Aronne Piperno, dell’amministratore e del Papa – con Riccardo Billi, Tommaso Bianco e Paolo Stoppa, che gli stessi ruoli ricoprirono sul grande schermo.
Non mancano, comunque, i riferimenti all’attualità. Alla madre, che gli ha detto: «Morto un Papa se ne fa un altro», Onofrio replica: «Non sempre. Qualche volta si fa un Papa nuovo anche se quello di prima campa ancora». E, in ossequio alla «par condicio», ne tocca pure alla politica, quando, per esempio, il marchese osserva: «C’è gente che senza saper fare niente diventa presidente del Consiglio».
Niente di trascendentale, si capisce. Così come si capisce che lo spettacolo si affida fondamentalmente al mestiere e alla simpatia di Montesano: il quale, nei panni di Onofrio e di Gasperino, per giunta dà luogo a una sorta di mini Montesano-story, infilando nell’uno gli echi di Rugantino e nell’altro quelli di Torquato il Pensionato, compreso il fischio.
Da citare, fra i comprimari, Giulio Farnese (lo zio prete), Dora Romano (la madre di Faustina e la moglie di Gasperino) e Ilaria Fioravanti (Genuflessa). E sull’onda delle musiche innocue di Friello, sullo sfondo delle funzionali coreografie di Roberto Croce e sulla spinta delle solite incursioni degli attori in platea disposte dalla regia di Piparo, s’affacciano le tranquille risate ch’era lecito preventivare.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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