Addio a Dario Fo, il sublime giullare vestito di rosso

Dario Fo durante uno dei suoi indimenticabili spettacoli sospesi fra clownerie e impegno politico

Dario Fo durante uno dei suoi indimenticabili spettacoli sospesi fra clownerie e impegno politico

È morto Dario Fo. Lo ricordo, innanzitutto, con il ritratto che tracciai di lui quando, nel 1997, gli assegnarono il Premio Nobel per la letteratura.

«Figlio di un ferroviere e di una contadina, venuto da Leggiuno, in quel di Varese, a studiare nella Milano di Vittorini, del Politecnico e del bar Giamaica, pittore dall’incerta ispirazione, architetto mancato: in una parola Dario Fo, corpo lungo e dinoccolato, voce impastata, sorriso vagamente equino. Davvero non si potrebbe immaginare qualcosa di più irregolare. E massimamente irregolare, di fatto, fu anche il suo debutto ufficiale come teatrante.
Era l’estate del ’53, e a Milano faceva caldo come può far caldo d’estate a Milano. Sicché Strehler e Grassi se n’erano andati in ferie e – i soldi, allora, non bastavano mai – avevano affittato il Piccolo, per quarantacinquemila lire a sera, a un terzetto di attori praticamente sconosciuti: Franco Parenti, Giustino Durano e, appunto, Fo, reduci da qualche timida apparizione sulle ribalte della rivista. Lo spettacolo a cui diedero vita si chiamò “Il dito nell’occhio”, ed era un autentico, e assolutamente inatteso, pugno nello stomaco del Belpaese democristiano.

Dario Fo in scena con Franca Rame

Dario Fo in scena con Franca Rame

Ne “Il dito nell’occhio”, uno dei più significativi esempi della cosiddetta “rivista da camera”, Dario Fo metteva per la prima volta a frutto la lezione dell’unico maestro che abbia mai avuto: il mimo francese Jacques Lecoq, che gli aveva insegnato a trasformare quel suo corpaccione disarticolato, quella sua voce stropicciata e quel suo sorriso sghembo in altrettanti, formidabili strumenti per catturare gli spettatori. E una seconda lezione importante il giovane comico l’ebbe attraverso Franca Rame, che sposò l’anno successivo e che gli mise a disposizione l’immenso tesoro dei canovacci di famiglia: una famiglia di attori girovaghi che, nell’Ottocento, aveva campato rinverdendo i fasti della gloriosa Commedia dell’Arte.
Dunque, ecco la radice e, insieme, la natura del teatro di Dario Fo: un sapiente, disinvolto e tuttavia sorvegliatissimo (sul piano formale e ideologico) mélange di espressività mimica e capacità d’improvvisare, sì da risultare sempre in sintonia con la contingenza “storica” della rappresentazione. Peraltro, fu proprio dai canovacci della famiglia Rame che Fo trasse il suo primo spettacolo di successo: quella “Comica finale” che nel ’58 inaugurò lo Stabile di Torino diretto da Gianfranco De Bosio. Ma subito dopo venne anche il primo segnale dell'”anarchia” di Dario, il fermo rifiuto opposto allo stesso De Bosio che, dopo quel successo, gli aveva proposto di mettere in scena con lui il Ruzante.
Fo, invece, adottò una scelta completamente eccentrica, e in tutti i sensi dell’aggettivo: dopo aver costituito una propria compagnia a struttura familiare, giusto come quelle degli attori girovaghi di un tempo, si trasferì all’Odeon di Milano, il tempio della rivista targata Rascel e Walter Chiari. Ma, partendo da quell’insolita roccaforte, cominciò immediatamente (e andò poi avanti per una decina d’anni) a inondare i teatri leggeri di mezza Italia con una pioggia di commedie – vedi “Gli arcangeli non giocano a flipper”, “Chi ruba un piede è fortunato in amore”, “Settimo: ruba un po’ meno” – che alla struttura borghese accoppiavano contenuti satirici del tutto anomali ed esplosivi.

Dario Fo, il volto che si confonde con la maschera

Dario Fo, il volto che si confonde con la maschera

Ma ben presto fu chiara a Fo la stridente contraddizione di un successo elargito da quella stessa borghesia che lui metteva alla berlina. Sicché, dopo “La signora è da buttare”, del ’67, cambiò ancora una volta pelle, imboccando decisamente la strada del teatro politico. Nacque il collettivo della Comune e vennero fra gli altri, lo sappiamo, i vari “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone”, “Morte accidentale di un anarchico”, “Pum! Pum! Chi è? La polizia!”.
Non mancarono le approssimazioni di stampo “mistico” e le contraddizioni, soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra Fo e il Partito Comunista. E tuttavia, fu proprio da quel lungo confronto con situazioni d’emergenza, e sera dopo sera diversissime fra loro, che poté nascere “Mistero buffo”: ossia il miracolo di un teatro in cui si fondevano al calor bianco un’impostazione colta di partenza, l’inventiva della straordinaria tradizione comica italiana, l’afflato politico e una lingua inventata, fatta spessissimo di puri suoni e, perciò, capace di comunicare al di là di qualsiasi barriera culturale, battendo in breccia ogni retorico mercimonio delle parole.
Del resto, per l’appunto sulle tracce di “Mistero buffo”, in cui sono evidentissime le ascendenze ruzantiane, Dario Fo ha potuto un paio d’anni fa rincontrare il Beolco. E nel recital a lui dedicato – a Napoli lo vedemmo al Bellini – Dario si pose non come un suo semplice interprete, ma come una sua perfetta reincarnazione. La lingua di Ruzante, oggi incomprensibile persino da parte dei contadini padovani, si fece un trasparente e fraterno alfabeto di gesti».

Aggiungo, per quanto mi riguarda personalmente, il ricordo di Dario Fo legato alla grande manifestazione che si svolse a Milano un anno dopo l’assassinio di Pinelli. Eravamo venuti, con le nostre bandiere rosse (ma c’erano, naturalmente, anche quelle nere dei libertari), un po’ da tutta Italia. E trovammo ad attenderci una Milano in pieno assetto di guerra, con i poliziotti che presidiavano ogni metro dalla stazione centrale in poi. Ma dopo qualche scontro davanti alla Facoltà di Architettura, la tensione si sciolse, ancora una volta, nel fiammeggiante orgoglio dell’appartenenza. In un capannone di periferia (e tutti, prima di entrare, venivano rigorosamente perquisiti), Dario Fo diede, manco a dirlo, lo spettacolo «Morte accidentale di un anarchico». E al termine – loro sul palco (Dario Fo, Franca Rame, la compagnia) e noi dabbasso – insieme a cantare «L’Internazionale», col pugno chiuso levato in alto.
Ciao, Dario. Ti saluto, è chiaro, levando il pugno chiuso davanti allo schermo del pc mentre ascolto «L’Internazionale» da You Tube.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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