Il ritorno di «Luparella»
con Moscato in scena

Isa Danieli in una scena di «Luparella»

Isa Danieli in una scena di «Luparella»

Lo sappiamo, «Luparella» è, fra i testi di Enzo Moscato, uno dei più intensi ed importanti. A cominciare dal sottotitolo, «Foto di bordello con Nanà»: un sottotitolo che dà conto, come meglio non si potrebbe, della «natura» del personaggio protagonista: nient’altro che un accessorio annegato nell’immobilità e nell’immutabilità (per l’appunto da posa fotografica) dell’insieme. Infatti, Nanà lavora in un casino, un casino dei Quartieri Spagnoli nella Napoli occupata dai nazisti: ma non è una che fa la puttana, è solo una che fa i servizi «minuti» alle puttane.
Ebbene, rispetto ai due precedenti (quello che debuttò al Festival delle Ville Vesuviane nel ’97 e quello che aprì la stagione del Mercadante nel 2002) l’allestimento di «Luparella» adesso proposto al Nuovo presenta una novità: accanto alla protagonista, la sempre splendida Isa Danieli, è in scena lo stesso Moscato. E non si tratta, badiamo, di una novità di facciata, perché rimanda al nodo fondamentale del testo.
Mi riferisco al fatto che nella prima stesura di «Luparella» (compresa in «Trianon») Nanà era un uomo. E, così, il frocetto che prima poteva soltanto desiderare d’essere donna, ora lo è per davvero: ciò che crea un’identità (e una solidarietà) di fondo fra tutte le figure principali della vicenda; e, dunque, dilata sino alla dimensione di una presa di coscienza collettiva la rivolta di Nanà. La quale, dopo aver aiutato la vecchia prostituta Luparella a mettere al mondo una sua tardiva creatura, uccide – con le stesse forbici con cui aveva tagliato il cordone ombelicale – il soldato tedesco che s’accanisce a violentare tra sangue e urina il corpo inerte di quella madre «clandestina», morta durante il parto.
Come si vede, un lancinante contrasto dialettico tra la degradazione estrema e l’estrema purezza batte in breccia ogni rischio di retorica. E sullo «straniamento», del resto, si reggono anche la regia dello stesso Moscato, che, per esempio, piazza davanti a Nanà un eclatante microfono da Festival di Sanremo, e la bellissima colonna sonora di Pasquale Scialò, che mescola, poniamo, «Fuoco a mmare», una spudorata canzonetta che pare piacesse molto agli alleati di stanza a Napoli e alle loro «segnorine», e il raffinato Lied di Schubert «Gute Nacht».

Enzo Moscato

Enzo Moscato

Proprio il Moscato che canta «Fuoco a mmare» dimostra, allora, che questa sua inedita presenza in scena costituisce un segno di storicizzazione, un segno che ribadisce quando – battibeccando con la Danieli, che gli chiede ossessiva: «Chi t’ha mannato, m’ ‘o vvuo’ dicere chi t’ha mannato?» – compare avvolto in un tricolore per alludere ironicamente alle giovani italiane di mussoliniana memoria. Ma, ovviamente, è nella straordinaria scrittura dispiegata nella circostanza che lo spettacolo s’esalta, e fiammeggia addirittura.
Risento il coro tenero e grandioso che sorge dal fondo silenzio nel giardino spettrale di Campana. Poiché accade che sulla carne indifesa di una realtà ridotta alla sua banalissima evidenza, sulle «ciocche d’ ‘e capille, ‘nfose e nere comm’a posa d’ ‘o ccafè», cali talvolta l’immemore carezza di un’infantile preghiera a rima baciata: «Santa Rita ‘e Luparella, / sparpetea ‘sta puverella: / è ‘nu sciore, fall’arapi’, / ‘nu bucciuolo, dice sì»… E persino la luna si fa «umana, petulante». Entra «in confidenza cu tutto chello ca se perde, cu tutto chello ca va sott’acito dint’all’anema d’ ‘e ccase».
Inutile, infine, sprecare parole sulla prova strepitosa che – tra passione, furore e sarcasmo – fornisce Isa Danieli nei panni di Nanà. La colonna sonora accoglie anche qualcuna delle incisioni inedite di sua madre, la cantante Rosa Moretti. Ed io penso a come Isa s’innamorò di «Luparella» sin da quando Annibale Ruccello, nell’83, spinse Moscato a leggerle il testo.
Insomma, questo spettacolo è prezioso: perché rinvia a una koinè di affetti, tensioni ideali e affinità elettive; e così, una volta tanto, ispira almeno qualche conforto nel deserto dei sentimenti e della cultura che oggi c’imprigiona.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

(«Il Mattino», 14 dicembre 2014)

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