Servillo/Jouvet, una preghiera laica in nome della Parola

Toni Servillo e Petra Valentini in una scena di «Elvira» (foto di Fabio Esposito)

Toni Servillo e Petra Valentini in una scena di «Elvira» (foto di Fabio Esposito)

MILANO – Prima di procedere con l’analisi di «Elvira» – lo spettacolo che, coprodotto dal Piccolo Teatro di Milano e da Teatri Uniti, viene dato in via Rovello, nella sede storica del Piccolo oggi intitolata a Paolo Grassi, con Toni Servillo nella doppia veste di regista e protagonista – è opportuno fare un po’ di storia circa l’oggetto dell’allestimento.
A partire dal 1939, Louis Jouvet fece stenografare tutti i corsi che tenne al Conservatorio Nazionale Superiore d’Arte Drammatica di Parigi, in cui insegnava dal 1934. E ne risultarono due volumi: «Molière et la comédie classique» (Gallimard, 1965) e «Tragédie classique et théâtre du XIX siècle» (Gallimard, 1968), dal primo dei quali l’autrice e regista svizzera Brigitte Jaques trasse il testo di «Elvire Jouvet 40», uno spettacolo che debuttò l’8 gennaio 1986 al Théâtre National de Strasbourg.
Si tratta di un testo basato sulla registrazione stenografica delle sette lezioni date da Jouvet – fra il 14 febbraio e il 21 settembre del 1940 – a proposito della sesta scena del quarto atto (l’addio di Elvira) del «Dom Juan» di Molière.

Louis Jouvet

Louis Jouvet

Jouvet insegna quella scena a un’allieva del terzo anno, chiamata Claudia ma che, nella realtà, si chiamava Paula Dehelly, poi denunciata in quanto ebrea e bandita dai teatri. E dunque, sullo sfondo delle lezioni di Jouvet c’è la guerra: per l’esattezza, «la drôle de guerre (la strana guerra)» sullo sfondo delle quattro lezioni date nel febbraio 1940, la disfatta e lo sfollamento sullo sfondo di quella data a maggio e l’inizio dell’occupazione tedesca sullo sfondo delle due date a settembre.
In seguito, da quelle stesse sette lezioni Giorgio Strehler ricavò uno spettacolo che, intitolato «Elvira, o la passione teatrale», il 30 giugno del 1986 inaugurò il Piccolo Teatro Studio, con Strehler nel ruolo di Jouvet e Giulia Lazzarini nella parte di Claudia. E dico subito che, rispetto allo spettacolo di Servillo, la differenza capitale è che allora Strehler interpretava non solo Jouvet ma anche e soprattutto se stesso, mentre oggi Servillo interpreta esclusivamente Jouvet.
Non a caso, Strehler, in un prologo venato di tenerezza, paragonava il Teatro Studio a un bambino che aveva chiesto imperiosamente di nascere e che ora veniva consegnato al pubblico perché lo crescesse; e parlava di un «atto d’amore, che ha a che fare più con il cuore che con l’intelligenza» e della «capacità del teatro di unire gli uomini e le generazioni». In breve, la differenza di cui sopra si traduce nel fatto che Strehler aveva del teatro una visione romantica (consideriamo, del resto, la «passione» che inserì nel titolo dello spettacolo), laddove Servillo ne ha una storicistica.

Giorgio Strehler e Giulia Lazzarini in «Elvira, o la passione teatrale» (foto di Luigi Ciminaghi)

Giorgio Strehler e Giulia Lazzarini in «Elvira, o la passione teatrale» (foto di Luigi Ciminaghi)

D’altronde, Strehler poteva parlare così perché parlava – in anni assai poco somiglianti ai nostri – dal palcoscenico del Piccolo, ossia della più forte (culturalmente ed economicamente) realtà teatrale in Italia e di una delle più forti in Europa. Servillo, invece, è costretto alla problematicità, giacché i palcoscenici – anche quando, come nel caso di quello del Piccolo, rappresentano ancora una realtà culturale ed economica di rispetto – si son trasformati in isole perennemente assediate dai marosi selvaggi dell’indifferenza e della superficialità generali. E così, per lui, la tenerezza di Strehler finisce a far rima con amarezza, salvo, poi, tramutarsi – con scarto lucido e coraggioso – nella volontà dichiarata di ricorrere alle riflessioni di Jouvet «per significare soprattutto ai giovani la nobiltà del mestiere di recitare, che rischia lo svilimento in questi tempi confusi».
Dietro Servillo, insomma, ci sono (sotto specie dello scopo assegnato a questo spettacolo) i versi conclusivi di «Prima del silenzio» di Giuseppe Patroni Griffi: «Ogni uomo che muore / risorge in un altro che nasce. / La parola che non trova asilo / nella bocca dell’uomo / è già la morte – senza resurrezione»; e c’è (sotto specie del valore che si vuol dare all’atto del recitare e al suo elemento costitutivo imprescindibile, appunto la parola) «Conversazione con la morte» di Giovanni Testori: in cui si rimpiangono «le parole che oggi non sappiamo più dire» e si constata: «Come si fatica, arrivati qui, / in questo punto della storia, / a pronunciare le parole / come se fossero ancora vive, / come se le inventassimo noi, adesso e qui, / per la prima volta!».
Di qui l’importanza che Servillo, nel solco di Jouvet, attribuisce al testo: al testo come tramite, foriero d’interazione, fra il palcoscenico e la platea. E infatti, nel suo allestimento lui e gli attori/allievi (contrariamente a quanto avveniva nello spettacolo di Strehler, giocato per intero nello spazio scenico) sostano più di una volta fra gli spettatori. Siamo tutti coinvolti, ci dice, così, Servillo/Jouvet.
Decisiva e bellissima si rivela, in proposito, la sequenza conclusiva della quinta lezione. Spariti il maestro e gli altri due allievi, Claudia, seduta sul bordo della pedana collocata al centro del palcoscenico, comincia a recitare tra sé e sé l’invocazione disperata che Elvira rivolge a Don Giovanni perché voglia e sappia salvarsi. Ma non è sola, come potrebbe sembrare. Non può essere sola. Subito, sulla privatissima liturgia di quella sua prima battuta piomba, come la lama della ghigliottina, un discorso di Goebbels; e significa l’ingresso della Storia, sottolineando, insieme, la funzione del teatro come scambio continuo fra l’interno e l’esterno.

Servillo/Jouvet in un altro momento di «Elvira (foto di Fabio Esposito)»

Servillo/Jouvet in un altro momento di «Elvira» (foto di Fabio Esposito)

Sì, parliamo di uno spettacolo fatto non di battute, ma di pensieri. E mi limito a citarne (nella traduzione di Giuseppe Montesano) quello che ritengo fondamentale: «Recitare è l’arte di smuovere la propria sensibilità per trovare nuove voci, nuove strade, nuovi punti di partenza».
Al riguardo, la grandezza dell’interpretazione di Toni Servillo sta nel fatto che lascia sempre trasparire in filigrana, dietro il Jouvet didatta, il Jouvet che poi metterà in scena il «Dom Juan» come regista e protagonista. È il passaggio dalla pesantezza della teoria in sé allo sciogliersi della teoria medesima nella leggerezza della creazione.
Questo senza contare, naturalmente, la sapienza espressiva con cui Servillo rende la «potenza» e la «facoltà del sentimento portato all’eccesso» della «collera», dell’«indignazione» e dell’«orgoglio» che sono le «qualità», i «difetti» e le «virtù cardinali» indicati da Jouvet come i soli mezzi a disposizione dell’attore per appropriarsi e restituire al pubblico i personaggi. E accanto a lui risultano molto bravi anche gli «allievi»: innanzitutto, è ovvio, Petra Valentini nel ruolo di Claudia e Francesco Marino e Davide Cirri in quelli, rispettivamente, di Octave e di Léon. Sono bravi soprattutto perché «non li vedi», nel senso che recitano senza recitare.

Brigitte Jaques

Brigitte Jaques

Quella che mi sembra la parola-chiave che Brigitte Jaques riprende da Jouvet è: «difficile». E ci chiediamo – visto che, come ormai a teatro avviene sempre più raramente, «Elvira» pone e invita a porsi domande – che cosa sia «difficile». Si capisce (e in questo risiede la consistenza dello spettacolo di Toni Servillo, poetica e, prima che poetica, civile) che è «difficile» il teatro, è «difficile» farlo, è «difficile» farlo oggi, è «difficile» continuare a crederci, è «difficile» trasformarlo in un gesto politico nel senso alto dell’aggettivo.
Adesso il cerchio del discorso si chiude perfettamente, se penso che, con «Elvira», Toni Servillo mi ha riportato alla mente lo stesso passo de «I turbamenti del giovane Törless» di Musil che mi fece ricordare con «Le voci di dentro»: «[…] tra la vita che si vive e la vita che si sente, che s’intuisce, che si vede di lontano, è una frontiera invisibile; la porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell’uomo». Non è proprio su quella «frontiera invisibile» che accade la misteriosa epifania del teatro?
È misteriosa, l’epifania del teatro, perché s’inscrive non nel percorso, ma nel divenire. Oggi, per dirla con Cacciari, siamo «viandanti senza nostalgia della casa». E giusto di Cacciari, della considerazione ultima che avanza nel saggio «Occidente senza utopie», questo spettacolo incarna l’eco, in un respiro persino fraterno: «A noi spetta forse solo il compito di fare chiarezza e mantenere aperto il presente all’interrogazione».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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