Se nella cella di Brodskij irrompe la Roma di Fellini

Un momento di «Go.Go.Go» (al centro Elia Schilton nei panni di Iosif Brodskij)

Un momento di «Go.Go.Go» (al centro Elia Schilton nei panni di Iosif Brodskij)

VICENZA – La cella di una prigione situata in un’enorme torre d’acciaio alta circa un chilometro. È dotata di ogni comfort, dalla vasca da bagno allo schermo televisivo incassato nel muro. E vi si servono piatti sofisticatissimi come le creste di gallo con rafano, le uova di fenicottero farcite di caviale, il fegato di struzzo con uva passa e la trota con uova di cicogna. Mentre in giorni fissi vengono diffusi profumi che si chiamano «Aroma di Foresta» o «Brezza di Mare».
Questo l’ambiente in cui si svolgono i tre atti di «Marmi»: l’unico testo teatrale di Iosif Brodskij, che, datato 1984, insieme con altri scritti del poeta, Premio Nobel nel 1987, ha fornito adesso ad Aleksandr Sokurov, in occasione del ventennale della morte di Brodskij, lo spunto per allestire all’Olimpico – nell’ambito del Festival «Conversazioni» curato da Franco Laera – lo spettacolo «Go.Go.Go» («Vai.Vai.Vai», ovvero la corsa cieca dell’animale-uomo schiavo del proprio istinto), dato in «prima» mondiale e che costituisce il debutto in palcoscenico per il grande regista di «Moloch», «Toro», «Il Sole» e «Faust», Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Nella cella di «Marmi» incontriamo Publio e Tullio. Vi sono rinchiusi a vita: e non perché abbiano commesso qualche delitto, ma solo in quanto compresi nel tre per cento dei cittadini destinato al carcere («Una specie di tassa») da un editto dell’imperatore Tiberio. Non possono fare altro, allora, che parlare, incessantemente, di tutto e del contrario di tutto, dalle torte al giorno del Giudizio, dall’impianto idrico di Roma all’erezione, dalla libertà alle pieghe della toga.

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

Perché parlano tanto? La risposta è in quella che, pronunciata da Tullio, mi sembra, oltre ogni dubbio, l’autentica battuta-chiave: «I giorni passano! Sta tutto lì. Nel fatto che i giorni passano. Puoi darti da fare quanto vuoi, sei comunque fermo, immobile, e i giorni invece passano. L’essenziale – è il Tempo».
Infatti, proprio il Tempo, come categoria decisiva dell’Esistere, incarna il tema centrale (e assolutamente non trascurabile) dei tre atti in questione. Si spiega così l’eclatante anacronismo – la didascalia iniziale dice che siamo nel «Secondo secolo dopo la nostra èra» – messo in campo da Brodskij. E così si spiega il fatto che Publio e Tullio parlino senza posa: è il solo mezzo che hanno a disposizione per tentare di «fondersi col Tempo».
Di qui la presenza nella loro cella – sugli scaffali e nelle nicchie alle pareti – di busti (in marmo, appunto) di autori classici, primi fra tutti Orazio, Virgilio e Properzio. Dice a un certo punto Publio: «Coi poeti succede una strana cosa: dopo di loro non si ha più voglia di parlare. Cioè, non si può». Sono la confessione e la denuncia dell’indecenza di quel parlare come espediente. I busti di marmo dei poeti sono, dunque, un monito. Aggiunge Publio che, dopo aver letto i loro versi, addirittura si ha «vergogna della propria voce, del proprio corpo».
Insomma, «Marmi» – evidente metafora del mondo e della società attuali, oltre che, ovviamente, satira feroce del regime sovietico – mescola, sul filo del paradosso, la filosofia, la politica e la quotidianità minuta. E trae una maggiore efficacia del discorso dal ricorrere degli ossimori tipici di tanta parte della poesia di Brodskij, qui materializzati, per esempio, dall’alternarsi del lieve slittamento di senso ironico («Tutti i classici sono pesanti», dice Tullio a proposito dei busti che affollano la cella che divide con Publio) e di una greve comicità da lupanare (vedi il racconto di Publio a proposito di «un arabo che per un paio di sesterzi se lo lasciava infilare in una narice […]. E quando il cliente aveva finito, si soffiava il naso… È morto di catarro alle vie respiratorie».

Aleksandr Sokurov

Aleksandr Sokurov

Ebbene, direi che – rispetto a tutto questo – la regia di Sokurov punta dichiaratamente e strenuamente sulla metafora, ma abbassandola di tono: nel senso che la sposta sul terreno della più abitudinaria dimensione pubblica della nostra vita. La cella di Publio e Tullio diventa, in tal modo, una piazza di una qualsiasi città italiana. A destra una sorta di edicola votiva sovrastata dalla statua di una santa munita di alabarda e a sinistra i tavolini all’aperto di un ristorantino alla buona. E con ciò, naturalmente, Sokurov rende omaggio all’ossimoro (la compresenza di «alto» e «basso») ricorrente, come ho accennato, nella poesia di Brodskij.
La conseguenza, si capisce, è un continuo scambio tra l’interno e l’esterno: ossia fra la mente di Brodskij (della quale Publio e Tullio sono evidentissime «proiezioni», tanto che il regista russo, con acuta intuizione, ne fa un unico personaggio, recando ciascuno di loro sulla nuca la riproduzione esatta della faccia dell’altro) e la concreta animazione di quella piazza: un’animazione che peraltro, giusto il fluire impassibile del Tempo di cui sopra, procede dall’immediato dopoguerra (vedi i soldati americani che bighellonano dietro «segnorine» e servette) agli anni Settanta (richiamati dai salti e dalle capriole ininterrotti di un gruppo di acrobati di strada). E sono, inutile specificarlo, i simboli del passaggio da un’Italia povera, ma vitale e sognatrice, a un’Italia ricca ma immemore, perduta in ripetitive esibizioni estemporanee.

A sinistra Michelangelo Dalisi (Publio) e a destra Max Malatesta (Tullio) in un altro momento di «Go.Go.Go»

A sinistra Michelangelo Dalisi (Publio) e a destra Max Malatesta (Tullio) in un altro momento di «Go.Go.Go»

È lo stesso scarto che si determina, del resto, fra la statua della santa munita di alabarda e ciò che contiene l’edicola votiva sotto di essa: invece delle reliquie della santa medesima, un’enorme forma di parmigiano da cui, ad intervalli più o meno regolari, vanno a prendere scaglie tutti i passanti nella piazza. E al contrario, i sogni di quell’Italia povera ma vitale sono esemplificati (e non poteva essere diversamente, data la professione di Sokurov) dall’irrompere del cinema, sotto specie di brani di «Roma».
Qui, per giunta, assistiamo a una delle più affascinanti e pregnanti sequenze teatrali degli anni recenti. I brani del film di Fellini vengono proiettati in fondo alla prospettiva dello Scamozzi e, quindi, se ne colgono solo frammenti: ciò che li trasforma in un equivalente degli «objets trouvés» dei dadaisti, ossia nella più ardita, concettualmente parlando, trovata artistica volta a sottolineare ed esaltare lo splendore nascosto della realtà. Fece qualcosa di simile anche Kantor. E poi, a costituire l’ennesimo rimando all’ossimoro della compresenza, in Brodskij, dell’«alto» e del «basso», Sokurov proietta le immagini di «Roma», oltre che in fondo alla prospettiva dello Scamozzi, anche sull’acqua sporca di una pozzanghera al centro della scena.
Ovviamente, Fellini, accompagnato dalla Magnani, compare anche in carne e ossa, così come in carne e ossa compare lo stesso Brodskij a dialogare con le sue «proiezioni». È sempre lo scambio fra l’interno e l’esterno. E certo, in queste circostanze (così come sul piano dei testi originali di Sokurov e di Alena Shumakova) lo spettacolo accusa qualche lungaggine e qualcosa di scontato. Ma si tratta di nei che possono essere eliminati.
Ottima, infine, anche la prova degl’interpreti: Michelangelo Dalisi (Publio), Max Malatesta (Tullio), Elia Schilton (Brodskij) e, nei ruoli minori, Karina Arutyunyan, Paolo Bertoncello, Alessandro Bressanello e Giulio Canestrelli.
Al termine della «prima», poi, Aleksandr Sokurov ha fatto una cosa che, dati i tempi correnti, era del tutto imprevedibile: rifiutando di schierarsi alla ribalta fra gli attori protagonisti, e rifiutando il fascio di fiori che gli porgeva un’attrice, è sceso sotto il proscenio a passare in rassegna la folla delle comparse, costituita dai componenti di varie realtà artistiche vicentine venuti a partecipare allo spettacolo come volontari. Il grande regista russo li ha salutati tutti, stringendo loro le mani e baciando quelle delle signore. Ed è stato un commovente, meritorio e salutare riconoscimento della troppo spesso dimenticata funzione civile del teatro.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

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