Un Padre Ubu ipnotizzato
fra Bergman, Fassbinder e la Callas

Patrizia Aroldi nei panni della clownessa di «Giduglia» (foto di Maura Festa)

Patrizia Aroldi nei panni della clownessa di «Giduglia» (foto di Maura Festa)

BACOLI – Lo sappiamo, col termine «giduglia», mutuato non a caso da Rabelais, Padre Ubu si riferisce alla propria enorme pancia, che rappresenta l’eccesso degli appetiti umani. E sappiamo pure che, graficamente resa come una vorticosa spirale, la «giduglia» assurse a simbolo della patafisica, la «scienza delle soluzioni immaginarie» lanciata da colui, Alfred Jarry, che appunto di Padre Ubu fu a sua volta il padre.
Ma invano ci si aspetterebbe un aggancio a tale contesto – ovvero alla sostanza della rivoluzione ideologica e formale innescata da quel drammaturgo, eccentrico nel senso più alto dell’aggettivo – dallo spettacolo «Giduglia» che Patrizia Aroldi propone ancora stasera, in collaborazione con Danio Manfredini, presso la Comunità Dedalo, nell’ambito dell’«Efestoval» diretto da Mimmo Borrelli. La «giduglia», Jarry e la patafisica si manifestano solo nel titolo, in una riproduzione della spirale ubuesca a tratti roteante e nelle strisce bianche e nere che dalla spirale stessa si estendono al cappello, alle scarpe e alla valigia del personaggio protagonista, nonché a tutti gli oggetti che dalla valigia vengono via via tirati fuori.
Qui, per dirla in breve, c’imbattiamo in una clownessa che – depressa e smarrita come ogni crisi esistenziale che si rispetti prescrive che debba essere chi l’attraversa – affronta un’improbabile terapia psicanalitica a base d’ipnosi, in cui il terapeuta, ridotto a una voce registrata, finisce per rivelarsi (ciò ch’era larghissimamente prevedibile) come un «doppio» speculare della paziente.
Ora, apprendo dalle note informative diffuse dall’ufficio stampa di «Efestoval» che la Aroldi, laureata in Fisica, vanta «un quadriennio di formazione in Medicina Psicosomatica», «la Cattedra di Drammaturgia e Danza-terapia all’Università di Lugano» e «seminari e incontri individuali sulla comunicazione, sul linguaggio del corpo e sul Teatro interno al fine di dare voce alle qualità individuali che identificano la potenza di ogni essere». E non ho il minimo dubbio che intendesse trasferire nello spettacolo di cui parliamo così specifiche competenze. Il problema, però, è che a noi spettatori non ne arriva neppure l’eco.
Il testo (assai striminzito, appena cinque paginette con un mare di spazio bianco) annovera battute dell’ipnotista come questa: «Venire al mondo […] è un attimo… ma è l’eternità, l’eternità che si sprofonda in noi. Ci si intrappola in una forma… finché dura, non si può essere altro che quella…». E sospetto che qualcosa del genere l’avesse già detto un certo Pirandello. Mentre un’altra sentenza del nostro terapeuta («Conosci te stesso») era ben nota sia alle orde di turisti spensierati in visita al tempio di Apollo a Delfi sia agli sparuti e cogitabondi pellegrini in contemplazione davanti al «memento mori» del mosaico ospitato nel convento di San Gregorio a Roma.
In quanto interprete, poi, Patrizia Aroldi fa soprattutto e veramente il clown, con tanto di pallina rossa sul naso, scarponi sformati, numeri di giocoleria e il solito ballo col manichino. E in questo, oltre ogni dubbio, è più che brava. Ma che c’entrano, allora, le citazioni da «Scene da un matrimonio» di Bergman e da «Martha» di Fassbinder? E che c’entra la divina Callas che canta «Sempre libera»?
Sospetto anche questo, che si tratti di semplici «escursioni» volte al solo scopo di «épater les bourgeois». Altro che l’autentico terremoto (un quarto d’ora di proteste e insulti) che Jarry suscitò già con la famigerata parola iniziale, «Merdre!», quando il 10 dicembre 1896 il suo «Ubu re» debuttò al Teatro dell’Opera di Lugné-Poe. Né basta l’espediente facile facile di piazzare sul palcoscenico cinque specchi deformanti a significare lo sconvolgimento della mente e del cuore della clownessa.
Tralascio, peraltro, di soffermarmi sulle congerie di sottofinali che allungano oltre il dovuto e il sopportabile l’allestimento, e in particolare sul colloquio fra la clownessa e un teschio che, per esempio, se n’esce con rivelazioni strabilianti quali: «Polvere eri e polvere diventerai». In definitiva, la sigla di questo spettacolo che tanto superficialmente si richiama a Jarry sta nella frase dell’ipnotista pronunciata quasi in apertura, e dunque collocata in posizione fortemente icastica: «Quando dirò la parola “Giduglia” tu piomberai all’istante in una trance profonda…». È esattamente l’opposto, come ho accennato, di quanto si proponeva Alfred Jarry.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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6 risposte a Un Padre Ubu ipnotizzato
fra Bergman, Fassbinder e la Callas

  1. Lucia Manghi scrive:

    All’epoca Jarry suscitò un piccolo terremoto tra un pubblico indignato.
    120 anni dopo il pubblico ha dimostrato di averne fatta di strada, mentre alcuni critici sono rimasti ancora là, al 1986.
    Lucia Manghi

  2. Enrico Fiore scrive:

    Non capisco che cosa significhi e a che cosa miri, un “commento” del genere. Io ho criticato il fatto che lo spettacolo in questione – mentre fin dal titolo si riferisce esplicitamente a Jarry e al suo capolavoro, l'”Ubu re” – poi non mette sul palcoscenico alcunché, né di Jarry né dell'”Ubu re”. E questo vuol dire, a mio modesto avviso, utilizzare un autore celebre e un testo non meno celebre come il semplice e proverbiale specchietto per le allodole. E vuol dire, quindi, prendere per i fondelli proprio quel pubblico che “120 anni dopo ha dimostrato di averne fatta di strada”. Peraltro, parliamo di un “commento” scritto in fretta e furia, alle 6,42, da una persona evidentemente ancora assonnata, tanto da scambiare il 1896 col 1986.
    Enrico Fiore

  3. Donata Scaparra scrive:

    Forse il fatto di conoscere quasi nulla di Jarry mi ha consentito di avere uno sguardo più aperto e senza aspettative, tranne le aspettative che qualunque spettacolo deve avere: piacere, divertire, commuovere, interessare, far riflettere… alla peggio, trascorrere qualche ora senza annoiarsi. Io ho trovato “Giduglia” poetico, evocativo. Leggo le recensioni per capire ciò che non sono riuscita a cogliere, anche per ignoranza, certo. Ma, in questo caso, se di Jarry-Ubu “Giduglia” non ha niente, a me viene da dire: meno male! Anche una buona riproposizione sarebbe stata imbarazzante, non crede?
    Donata Scaparra

  4. Enrico Fiore scrive:

    Gentile Donata,
    innanzitutto spero di aver trascritto correttamente, dall’indirizzo e-mail, il Suo cognome, che non ha indicato nella firma. E poi sono costretto a correggerla: non è lo spettacolo che “deve avere” aspettative, le deve avere lo spettatore.
    Al riguardo, non c’è dubbio che Lei avesse tutto il diritto di aspettarsi da “Giduglia” un semplice intrattenimento. Ma non credo che con il suo spettacolo Patrizia Aroldi intendesse limitarsi a procurare un semplice intrattenimento, sia pure “poetico” o “evocativo”: altrimenti non lo avrebbe intitolato “Giduglia”, con un preciso, inequivocabile riferimento a Jarry e al suo capolavoro “Ubu re”.
    Aggiungo che, a mia volta, non mi aspettavo certo una “riproposizione” dell'”Ubu re”. Me la sarei aspettata se lo spettacolo della Aroldi fosse stato intitolato, appunto, “Ubu re”. Mi aspettavo soltanto che la Aroldi mantenesse le promesse che aveva fatto intitolandolo “Giduglia”. Perché, se intendeva prescindere da Jarry e dall'”Ubu re”, non lo ha intitolato, che so, “Angosce e giochi di una clownessa”?
    Si tratta, ripeto, di espedienti messi in campo sotto specie dei proverbiali specchietti per le allodole. Se Lei vuole accontentarsene, si accomodi pure. Io, in quanto critico, ho il dovere morale e professionale di analizzare tecnicamente uno spettacolo, mettendo da parte i miei gusti personali. E questo ho fatto con la mia recensione: che comunque – non so se se n’è accorta – elenca, sì, i difetti di “Giduglia”, ma contiene anche un giudizio assai positivo sulla Aroldi in quanto attrice, che ho definito “più che brava”.
    In ogni caso, La ringrazio per l’attenzione che mi ha concesso.
    Cordiali saluti.
    Enrico Fiore

  5. Rocco Pollina scrive:

    L’artista è il creatore di cose belle.
    Rivelare l’arte e nascondere l’artista è il fine dell’arte.
    Il critico è colui che può tradurre in diversa forma o in nuova sostanza la sua impressione delle cose belle.
    Tanto le più elevate quanto le più infime forme di critica sono una sorta di autobiografia.
    Coloro che scorgono brutti significati nelle cose belle sono corrotti senza essere affascinanti. Questo è un errore.
    Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono le persone colte. Per loro c’è speranza.
    Essi sono gli eletti: per loro le cose belle significano solo bellezza.
    Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto.
    L’avversione del diciannovesimo secolo per il realismo è la rabbia di Calibano che vede il proprio volto riflesso nello specchio.
    L’avversione del diciannovesimo secolo per il romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede il proprio volto riflesso nello specchio.
    La vita morale dell’uomo è parte della materia dell’artista, ma la moralità dell’arte consiste nell’uso perfetto di un mezzo imperfetto. L’artista non desidera dimostrare nulla. Persino le cose vere possono essere dimostrate.
    Nessun artista ha intenti morali. In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico.
    Nessun artista è mai morboso. L’artista può esprimere qualsiasi cosa.
    Il pensiero e il linguaggio sono per un artista strumenti di un’arte.
    Il vizio e la virtù sono per un artista materiali di un’arte.
    Dal punto di vista formale il modello di tutte le arti è l’arte del musicista. Dal punto di vista del sentimento il modello è l’arte dell’attore.
    Ogni arte è insieme superficie e simbolo.
    Coloro che scendono sotto la superficie lo fanno a loro rischio.
    L’arte rispecchia lo spettatore, non la vita.
    La diversità di opinioni intorno a un’opera d’arte dimostra che l’opera è nuova, complessa e vitale.
    Possiamo perdonare a un uomo l’aver fatto una cosa utile se non l’ammira. L’unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente.
    Tutta l’arte è completamente inutile.
    Oscar Wilde

    A me “Giduglia” è piaciuto e sono sufficientemente colto da capire che se uno spettacolo ha per titolo “La cantatrice calva” non necessariamente deve avere a che fare con una donna senza capelli che canta.
    Cordiali saluti.
    Rocco Pollina

  6. Enrico Fiore scrive:

    Egregio Signor Pollina,
    La ringrazio per avermi ricordato che cosa Oscar Wilde pensava dell’arte. E mi permetta di aggiungere che, come l’arte per Wilde, dice Lei, così il Suo “commento”, dico io, è “completamente inutile” per me e, credo, per tutti coloro i quali sanno leggere una recensione sulla base degli elementi concettuali e strutturali dello spettacolo a cui la stessa si riferisce.
    Lo ripeto ancora una volta: in quanto critico di professione (e faccio il critico da oltre mezzo secolo, in Italia e all’estero), ho il dovere di esprimere sugli spettacoli che vedo un parere tecnico. Non posso limitarmi a dire che un certo spettacolo “mi è piaciuto” o “non mi è piaciuto”, ma debbo, invece, analizzarne pregi e difetti, dimostrando (o, almeno, cercando di dimostrare) la fondatezza delle mie opinioni sulla traccia dei dati di fatto.
    A questo mi attengo da sempre e a questo mi sono attenuto anche per quanto riguarda “Giduglia”. Ho parlato del testo, ho citato le battute che mi sembrano decisive, ho sottolineato le lungaggini che appesantiscono l’allestimento. Ma nessuna obiezione Lei mi ha mosso in proposito. Ha saputo dire solo, per l’appunto, che “Giduglia” Le è piaciuto. E per ciò che si riferisce alla Sua affermazione finale (che cos’è, una battuta?), Le rispondo che, certo, uno spettacolo che ha per titolo “La cantatrice calva” non necessariamente deve avere a che fare con una donna senza capelli che canta, ma deve sicuramente avere a che fare con il capolavoro di Ionesco.
    Piuttosto, e concludo, mi riescono alquanto sospette tante acritiche levate di scudo in favore dello spettacolo di Patrizia Aroldi. Che cosa succede, s’è costituita in suo favore un’associazione di avvocati d’ufficio? Comunque, mi auguro di non dover più rispondere ad “arringhe” del genere. Circa “Giduglia”, d’ora in avanti risponderò solo a commenti veri, che mi dicano (e mi dimostrino) quali inesattezze ci sono nella mia recensione.
    Le ricambio i saluti. Con il consiglio, se me ne dà licenza, di non perdere tempo in simili confuse esternazioni. E, soprattutto, con la speranza che non lo faccia più perdere a me.
    Enrico Fiore

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