Shakespeare, quattrocento anni e settantacinque morti fa

Gli attori-clown di Spymonkey, protagonisti a Vicenza con «The complete deaths»

Gli attori-clown di Spymonkey, protagonisti a Vicenza con «The complete deaths»

VICENZA – Anche «Conversazioni», il Festival curato da Franco Laera, ha celebrato il quattrocentesimo anniversario della morte di Shakespeare. E lo ha fatto in maniera intelligente e intrigante: coniugando la profondità e la leggerezza. Così, al prologo che ha visto Robert Wilson introdurre il film del suo «Hamlet: a monologue», è seguita Spymonkey, la più importante compagnia inglese di «physical comedy», con lo spettacolo «The complete deaths», un’irresistibile carrellata che – fra battute ribalde, parodie mimiche e surreali «nonsense» – ha comicamente rivisitato, nella Basilica Palladiana, tutte le morti che ricorrono nei testi del Bardo.
Le avete mai contate? Quelli di Spymonkey (i bravissimi attori-clown Aitor Basauri, Stephan Kreiss, Petra Massey e Toby Park) assicurano che – fra accoltellamenti, soffocamenti, avvelenamenti, annegamenti, tagli di teste, suicidi e attacchi di orsi – sono settantaquattro. Settantacinque se contiamo anche la mosca del «Tito Andronico». E dal canto suo, il regista Tim Crouch ha stabilito che il metodo di esecuzione preferito da Shakespeare è l’accoltellamento: lo adotta per ben ventiquattro volte.
Ecco, dunque, una sarabanda che va, tanto per fare solo due esempi, dal Bruto del «Giulio Cesare» che si getta sulla propria spada tenuta in pugno da uno spettatore scelto a caso alla regina d’Egitto di «Antonio e Cleopatra» che diventa, con l’aspide debitamente appeso al collo, la scalcagnata soubrette di un’improbabile e altrettanto malmessa rivista. Il tutto mentre, dall’inizio alla fine, una tranquilla signora, molto molto «british», lavora a maglia sotto l’arco minaccioso di una grande falce, pigiando regolarmente su un pulsante per accendere su un display i numeri del conto alla rovescia delle morti rappresentate.
Occorre aggiungere, però, che la sua imperturbabilità non è volta solo a determinare un ilare contrasto rispetto alla bolgia scatenata senza soste dagl’interpreti. Rimanda all’acuta definizione che Jan Kott diede di Riccardo III: «Riccardo è impersonale come la storia. Mette in moto il rullo compressore della storia, dopodiché il rullo lo stritola. Riccardo non è neanche crudele. Non rientra in nessuno schema psicologico. È la storia pura. Uno dei suoi capitoli ricorrenti. Non ha volto».
La storia, quindi, è per Shakespeare un meccanismo ad un tempo feroce e, per l’appunto, impassibile. Questo ci ricorda la signora molto molto «british» che insiste a lavorare a maglia mentre intorno a lei il sangue scorre a fiumi. E tanto basti a dimostrare come nell’operazione compiuta da Spymonkey serpeggino, sotto la superficie del gioco, non poche e non trascurabili implicazioni concettuali, teoriche e persino ideologiche: vedi quel ritratto canonico di Shakespeare che, in un filmato d’animazione proiettato sul fondale, si fonde con i volti di Gheddafi e di Putin.
Infatti, la vera protagonista dello spettacolo è la mosca del «Tito Andronico». Quasi sempre presente – che sia finta, attaccata in cima a un pezzo di fil di ferro, o autentica, ripresa in un video – serve a stabilire il rapporto fra il particolare minimo e il quadro universale della vita e del mondo. E (se è vero che non esita a zampettare anche sulla faccia di quella Giulietta che Romeo scambia per morta mentre sta solo dormendo) s’incarica addirittura di sottolineare la grazia e la maledizione del teatro su cui più volte mi son soffermato: quelle di dovere, per sua natura, fingere la vita nel momento stesso in cui vive.
Del resto, forse che il titolo «The complete deaths» non traduce – paradossalmente, certo, ma con indubitabile acume – la compresenza della morte vera di Shakespeare di cui oggi celebriamo il quattrocentesimo anniversario e di quella finta dei suoi personaggi evocati nell’occasione da Spymonkey? A un certo punto, il suddetto ritratto canonico del Bardo si anima per mostrarcelo con gli occhi roteanti per il disgusto. Ma poi il gran finale vede i quattro attori-clown trasformarsi in una «funeral band». È la musica che, col suo ritmo insieme sincopato e trascinante, ci guida a un’allegra accettazione della morte.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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