Quel gabbiano adesso è un gabbiano vero (ma fatto di carta)

Nele Savicenko e Martynas Nedzinskas in una scena de «Il gabbiano» secondo Koršunovas

Nele Savicenko e Martynas Nedzinskas in una scena de «Il gabbiano» secondo Koršunovas

VENEZIA – In scena non ci sono personaggi che vivono attraverso gli attori che li interpretano, ma attori che vivono attraverso i personaggi che li fanno esistere in quanto attori. È questa la differenza – sottile, e tuttavia carica d’implicazioni – che presiede all’allestimento de «Il gabbiano» di Cechov presentato da Oskaras Koršunovas nel Teatro alle Tese dell’Arsenale per il 44° Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia.
Infatti, sul palcoscenico, per il resto completamente vuoto, prima dell’inizio dello spettacolo sono disposte per gli attori delle file di sedie su ciascuna delle quali c’è un cartellino con il nome di uno dei personaggi: e le file di sedie sono l’una dietro l’altra come quelle delle poltrone in una sala teatrale, di modo che gli attori risultano assimilati agli spettatori che hanno di fronte, entrambi – gli attori e gli spettatori – in attesa dei ruoli, già dati e per sempre, incarnati dai personaggi. Vale dunque la pena di riepilogare ancora una volta la situazione che si accampa ne «Il gabbiano».
Irina Arkàdina, contro l’età che avanza, s’aggrappa alla superficie del proprio status di diva del teatro «ufficiale»; lo scrittore Trigòrin, suo amante, si crogiola nel successo tra noia, ipocrisia e narcisismo; Sòrin, fratello di Irina, rimpiange continuamente la vita che gli hanno negato i ventotto anni trascorsi da consigliere di stato; Dorn avrebbe volentieri barattato la carriera di medico e di donnaiolo con il soffio creativo degli artisti; Mascia, rinunciando all’amore per Konstantín Trepliòv, figlio dell’Arkàdina, s’acconcia a sposare il grigio maestro Medvèdenko; Nina Zarècnaja, che sognava di diventare una grande attrice, a sua volta rinuncia all’amore di Trepliòv, si mette con Trigòrin e, da lui abbandonata, si riduce a recitare in provincia per dei volgari mercanti; e Konstantín Trepliòv, che sognava di diventare anche lui uno scrittore affermato, si uccide addirittura. Come aveva promesso di fare dopo aver abbattuto col fucile il gabbiano del titolo, simbolo dichiarato dell’utopia del volo – ossia dell’impossibile riscatto da quella vita larvale – in vario modo coltivata da tutti gli «antieroi» citati.

Oskaras Koršunovas

Oskaras Koršunovas

Ecco, il simbolo. Koršunovas parte, intelligentemente, da una constatazione: in Cechov le passioni sono, sì, ineffettuali, ma non per questo non ci sono. E di conseguenza nell’allestimento del regista lituano viene strenuamente cancellato tutto ciò che costituisce un’allusione o un commento a quelle passioni: a cominciare, per l’appunto, dai simboli più eclatanti. Qui, insomma, deflagra la realtà allo stato puro, la realtà in sé e, quindi, la realtà al massimo della sua potenza.
Così, per primo, scompare – in quanto simbolo della libertà e della felicità – il gabbiano del titolo. Diventa un gabbiano vero, tanto che Trepliòv, in apertura dello spettacolo, ne fa sentire le strida registrate, per mezzo di un computer portatile che esibisce al proscenio. E, come se non bastasse, la sua consistenza di simbolo verrà del tutto negata quando, davanti a Nina, Trepliòv ammazzerà a pistolettate un gabbiano fatto di carta.
Il lago, poi. Se ne parla, lo sappiamo, dall’inizio alla fine, e risulta evidente oltre ogni dubbio che – fatto di un’acqua chiusa, che non ha scambi con altre acque – si pone come un equivalente, giusto simbolico, della solitudine dei personaggi in campo. Ma Koršunovas lo riduce a una pallida proiezione delle sue onde lente su uno schermo laterale.
Infine, scompare anche il teatrino dal cui palcoscenico Trepliòv intendeva lanciare – sotto specie delle «nuove forme» da lui propugnate – un appello alla rinascita morale e intellettuale. E se quella recita era già un aborto nel testo di Cechov, nello spettacolo di cui parliamo diventa, per giunta, un aborto che si determina nel buio assoluto, squarciato per brevissimi momenti solo dalla danza incerta di una torcia elettrica agitata da Konstantín.

Darius Gumauskas e Agnieska Ravdo

Dainius Gavenonis e Agnieska Ravdo

A dire, peraltro, della realtà che nell’allestimento di Koršunovas si manifesta al massimo della sua potenza, basta l’esempio della violentissima scarica di schiaffi e di pugni che l’Arkàdina rovescia sul figlio mentre ripetutamente lo accusa d’essere una «nullità». E una non meno efficace sottolineatura per contrasto viene adottata rispetto a tutto questo, mediante il ricorrente sbocco della rappresentazione in «oasi» di plateale comicità: vedi, sempre a titolo d’esempio, il Medvèdenko (proprio lui, un maestro!) che s’impappina sulla parola «indifferenza» fino a trasformarla in «indifferentismo», la stretta di mano fra Mascia e Dorn che si tramuta in un braccio di ferro e la comunicazione che alla fine del primo tempo Trepliòv rivolge al pubblico: «Intervallo di quindici minuti. Chi fa tardi è un gabbiano».
Una perfetta sintesi di questo spettacolo – acuto, creativo ed agile insieme – è poi il finale: in quello di Cechov Dorn conduceva Trigòrin alla ribalta e a mezza voce gli diceva: «Porti via di qui Irina Nikolàevna. Perché Konstantín Nikolàevic si è ucciso…», in quello di Koršunovas, subito dopo il colpo di pistola con cui Trepliòv s’è ucciso, Dorn si limita a dire: «Dev’essere scoppiata una boccetta di etere». Aveva già detto tutto quanto era necessario dire quel colpo di pistola.
Non occorre, infine, spendere troppe parole sulla splendida prova fornita dagl’interpreti: primi fra tutti Martynas Nedzinskas (Trepliòv), Nele Savicenko (l’Arkàdina), Agnieska Ravdo (Nina), Darius Gumauskas (Trigòrin), Dainius Gavenonis (Dorn) e Rasa Samuolyte (Mascia). Danno il senso della dignità. E molto dovrebbero girare in Italia, affinché possano andare a vederli i molti impiegati al catasto che da noi si spacciano per attori.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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