Servillo/Jouvet e i suoi allievi, il primo passo verso «Elvira»

Toni Servillo nei panni di Jouvet (foto di Andrea Avezzù)

Toni Servillo nei panni di Jouvet (foto di Andrea Avezzù)

VENEZIA – «Il sipario è calato. Lo spettacolo è finito. Nessuno è venuto a trovarmi. Sono salito nel mio camerino, solo. Che strana sensazione, quella di essere ancora truccati e restare così, a “metà”, sospesi tra il teatro e la vita “laica”».
È l’attacco di uno scritto di Louis Jouvet datato «Medellin (Colombia, Sudamerica), ore tre del mattino, un giorno di giugno del 1943». E più avanti Jouvet aggiunge: «Ma come “fare il teatro” senza pensarlo, senza porsi delle domande? Come stare in mezzo alla gente e non guardarla e non chiedersi, non interrogarsi sul teatro e sul mestiere dell’attore? Su quello che “il teatro” è? Perché è? Perché lo si fa? Per me ci sono due modi per fare o considerare il teatro: uno alla superficie, l’altro in profondità, o meglio in altezza, voglio dire proiettato nella verticale dell’infinito. Per me, il teatro è questo: una cosa dello spirito, un culto dello spirito. O degli spiriti».
Quello scritto aprì, il 30 giugno 1986, lo spettacolo di Strehler, «Elvira, o la passione teatrale», con cui s’inaugurò il Piccolo Teatro Studio. Era uno spettacolo basato su «Elvire Jouvet 40», l’allestimento che l’autrice e regista svizzera Brigitte Jaques aveva tratto dal resoconto stenografico delle sette lezioni che tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940 Jouvet, insegnante al Conservatorio d’Arte Drammatica di Parigi, impartì a un’allieva chiamata Claudia circa la sesta scena (l’addio di Elvira) del quarto atto del «Dom Juan» di Molière.

Louis Jouvet

Louis Jouvet

Ora, proprio lo scritto di Jouvet è stato scelto da Toni Servillo per innescare ieri sera, nel Teatro Piccolo Arsenale, l’evento «Open doors: Elvira» presentato nell’ambito del 44° Festival Internazionale del Teatro promosso dalla Biennale di Venezia. L’ha letto stando seduto – camicia azzurrina, pantaloni scuri, scarpe multicolori – sui gradini che dalla ribalta scendono in platea: e dunque la forma e la sostanza coincidevano, Servillo era sospeso, simbolicamente, tra la finzione (il palcoscenico) e la realtà (la sala), per l’appunto come Jouvet.
Si è trattato – mezz’ora in tutto – di un assaggio dello spettacolo «Elvira» che l’11 ottobre debutterà in via Rovello, nella sede storica del Piccolo oggi intitolata a Paolo Grassi. E Toni ha parlato di «un primo passo dell’andare insieme (lui e gli altri tre, giovanissimi, interpreti, n.d.r) dopo una settimana di approfondimento del testo a tavolino».
Ecco il punto: andare insieme verso che cosa? Verso la realizzazione dello spettacolo, certo; ma anche e soprattutto verso l’inverarsi della grazia e della maledizione del teatro richiamate, sia pure con altre parole, dallo scritto citato di Jouvet: giacché, come più volte m’è capitato di osservare, il teatro è per sua natura costretto a fingere la vita nel momento stesso in cui vive.
Per l’esattezza, l’assaggio era costituito dalla seconda delle sette lezioni in questione. E non a caso: perché è la lezione, datata 21 febbraio 1940, in cui Jouvet parla della compresenza, in Elvira, di un «amore ardente» e di un «distacco celeste», di un’«autorità» e di una «facilità di eloquio», di una «tenerezza» e di uno «strazio». E non sono, giusto, la grazia e la maledizione delle quali dicevo?

I tre allievi di Servillo/Jouvet

I tre allievi di Servillo/Jouvet

Preciso, adesso, che nello spettacolo di Servillo lo scritto di Jouvet non ci sarà. E non sarà l’unica, né la più influente, delle differenze rispetto all’«Elvira, o la passione teatrale» di Strehler. Ho letto attentamente la traduzione del testo della Jaques firmata da Giuseppe Montesano, confrontandola non meno attentamente con la registrazione dello spettacolo strehleriano realizzata dalla Rai: e posso assicurare che i due spettacoli risulteranno completamente diversi.
Ma, in proposito, rimando i particolari alla recensione di «Elvira». Qui mi limito a dire che lo spettacolo di Servillo, coprodotto dal Piccolo e da Teatri Uniti, affronterà, dopo il debutto, una tournée che si tradurrà, ben oltre il teatro, in una totale e appassionata e lucida adesione al travaglio d’intellettuale e di uomo di Jouvet: ci sarà una tappa parigina al Théâtre de l’Athénée, oggi intitolato per l’appunto a Jouvet, e si sta organizzando un giro di recite proprio in quell’America Latina dove Jouvet si esiliò dalla barbarie nazista, per tornare in Francia, a riprendere la direzione dell’Athénée, solo alla fine del ’44.
A quanto s’è visto ieri, promettono ottime cose anche i ragazzi che affiancheranno Toni: Petra Valentini (Elvira/Claudia), Francesco Marino (Don Giovanni/Octave) e Davide Cirri (Sganarello/Leon). Ma voglio, per concludere questa nota, constatare che trovo in Servillo – nella sua concezione dello spettacolo quale al momento mi sembra di poter scorgere – lo stesso sogno, trasferito all’attore, che in un breve scritto del 1926 Sergio Solmi vagheggiò per lo scrittore: quello «per cui il mondo può entrare nella parola senza residui, e tutte le idee e le fantasie sanno comporsi nelle ventiquattro lettere dell’alfabeto come in una necessaria incarnazione».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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