Annibale Ruccello, trent’anni dalla morte

 

Annibale Ruccello ne «Le cinque rose di Jennifer» (foto di Peppe Del Rossi)

Annibale Ruccello ne «Le cinque rose di Jennifer» (foto di Peppe Del Rossi)

Si compiono oggi trent’anni dalla prematura morte di Annibale Ruccello in un incidente stradale. Lo ricordo qui con una sintesi delle riflessioni che via via ho sviluppato su di lui e sulla sua opera.

Nel 1980 – avendo vinto il concorso per il posto di antropologo-ispettore presso l’Ufficio Etnografico istituito dall’allora sovrintendente ai Beni Artistici e Storici, Raffaello Causa – il ventiquattrenne Annibale Ruccello approdò al Museo di San Martino. E lì scoprì, dimenticata in un deposito e ridotta a un informe cumulo in balia della polvere, dei tarli e delle tarme, un’ingente e preziosissima raccolta di materiali riguardanti l’opera dei pupi napoletana. Si trattava di pezzi databili fra l’Ottocento e il primo Novecento, ma talvolta persino anteriori.
Bisognava correre immediatamente ai ripari, prima che un simile patrimonio andasse definitivamente perduto. Annibale cominciò, naturalmente, dalla conta dei reperti, isolandoli uno per uno dal mucchio e catalogandoli. E questo è l’elenco che ne stilò, in un articolo apparso l’anno seguente nella rivista «Campania Stagioni». C’erano «262 pezzi di armatura, 203 teste di pupi e di animali, 66 arti vari, 2 tronconi di animali, 336 capi di vestiario, 52 turbanti ed accessori, 101 manichini di pupi senza testa, 467 scenari e manifesti e 205 fascicoli di copioni teatrali manoscritti».
Si passò quindi al restauro, che Ruccello stesso definì, nell’avviarlo, «un’impresa disperatissima anche se non impossibile». E al riguardo lascio la parola proprio ad Annibale, che concluse l’articolo citato con un appello accorato e fiammeggiante insieme: «[…] Gli arti staccati (quasi macabri ex-voto anatomici), e i corpi decapitati, i “frammenti” di armature, le teste mozze dei nostri pupi sembrano involontariamente alludere alla condizione stessa della cultura subalterna, condizione ancora tanto da ricostruire e da portare alla luce, per poter finalmente scorgere la vita che anima le mani, il movimento delle articolazioni delle braccia e delle gambe, per poter finalmente ascoltare la voce delle teste mozzate».

Il busto di Ruccello scolpito da Antonio Gargiulo e collocato nella Villa Comunale di Castellammare

Il busto di Ruccello scolpito da Antonio Gargiulo e collocato nella Villa Comunale di Castellammare

In breve, voglio dire che tra quegli arti staccati e quei corpi decapitati c’era tutto il teatro di Annibale Ruccello, c’erano tutti i suoi personaggi: che lui definiva «figure deportate» in quanto, è ovvio, sradicate dalla loro cultura originaria e autentica.
C’erano, dunque, il protagonista de «Le cinque rose di Jennifer», emblema della mutazione che dal «femmeniello» (un fenomeno «gestito», una volta, in termini fortemente ritualizzati) ha condotto al semplice travestito (un «oggetto» votato unicamente alla funzione di merce di scambio); l’Adriana di «Notturno di donna con ospiti», privata del suo sistema di valori proletario in cambio dei laceri miti consumistici veicolati dalla televisione; la Ida di «Week-end», una professoressa che ha lasciato il suo profondo e magico Sud per trapiantarsi a Roma, dove impartisce lezioni private a ragazzini tonti e pruriginosi; la Clotilde di «Ferdinando», che la conquista capitalistica del Mezzogiorno ha espropriato del suo status sociale e soprattutto, insieme con la lingua, della sua identità; le quattro donne di «Mamma. Piccole tragedie minimali», che precipitano dalle fiabe della tradizione alla quotidianità insulsa dei nomi (Deborah, Ursula, Morgan, Isaura, Luis Antonio, Andrea Celeste, Dieguito…) affibbiati ai propri figli sulla traccia di un immaginario d’accatto diviso fra telenovelas e pallone; e, infine, l’impiegata comunale di «Anna Cappelli», che nel limbo di Latina rimpiange come un paradiso perduto («[…] non si tocca! È mia e non si tocca!») la camera che aveva a Orvieto nella casa di famiglia.
Ma tra quegli arti staccati e quei corpi decapitati c’era, naturalmente, pure Cesira, la protagonista de «La Ciociara» di Moravia che nel 1985 Ruccello adattò per la scena. Basta considerare che cosa Annibale osservò a proposito della sua riscrittura del dramma vissuto da Cesira e dalla figlia Rosetta: «È un dramma, sì, ma anche, e forse principalmente, un corto circuito culturale, il passaggio da una cultura all’altra, emblematico, poi, di una generale condizione italiana. Cesira, infatti, passa da una cultura arcaico-borghese a un’altra violentemente neo-borghese e consumista».

Isa Danieli in «Ferdinando»

Isa Danieli in «Ferdinando»

Nel merito, è necessario sottolineare – come già feci nell’introduzione al «Teatro» di Ruccello pubblicato nel 2005 dalla Ubulibri – che «Le cinque rose di Jennifer», il testo che nell’80 impose Annibale all’interesse e alla stima del pubblico e della critica nazionali, costituisce una vera e propria cartina di tornasole dei mutamenti sociali intervenuti a Napoli in quegli anni. E del resto, non a caso di quell’atto unico l’autore volle offrire, sei anni dopo il terremoto, una nuova versione.
Nel 1980, prima del terremoto, Jennifer abitava in una casa dei Quartieri Spagnoli (o, poniamo, di Soccavo o del Rione Traiano), arredata, lo ricordiamo, con il tenero e patetico kitsch di un paravento a fiori, di una toilette modello diva anni Cinquanta, dei centrini e dei ninnoli finto Capodimonte e di un carrello-bar stracarico di «preziose» bottiglie di liquore. E indossava una vestaglia fatta con le tende di merletto e un abito da sera fatto con la fodera. E ascoltava Radio Cuore Libero, con le canzoni di Patty Pravo, di Milva e persino di Orietta Berti.
Nel 1986, dopo il terremoto, Jennifer abitò in una casa di un quartiere residenziale, arredata con le veneziane, adorna di lacche nere e uccelli d’oro, asettica nei funzionali cassetti che rientravano nelle pareti al pari della toilette e del secchio per l’immondizia. E indossò una vestaglia di raso bianco, un turbante, un abito di lamé e, per andare a battere, il vestito e la parrucca di China Blue, protagonista dell’omonimo film di Ken Russell. E ascoltò una radio  che, figuriamoci, si chiamava Enola Gay (come il bombardiere B-29 Superfortress che sganciò l’atomica su Hiroshima!) e trasmetteva le canzoni di Raffaella Carrà, della Mina-strenna natalizia e, al massimo, dell’agghiacciante Gabriella Ferri di «Addo’ sta Zazà».
Fra l’altro, proprio un simile processo di accumulo delle varianti di uno stesso testo portava al tema di Napoli in quanto città «travestita» per eccellenza: una città in cui, di fronte all’impossibilità di produrre sul versante del sentimento, si assisteva a una diffusa canalizzazione dell’intero apparato culturale e delle relazioni interpersonali. E Jennifer, dunque, si faceva simbolo di una pratica di scrittura drammaturgica che non parlava di Napoli, ma, puramente e semplicemente, era Napoli: una scrittura che assumeva Napoli come corpo storico, visto, sentito e patito – lungo il suo divenire e trasformarsi  – senza alcuna preclusione ideologica e, ciò che più conta, senza il timore di «sporcarsi» con le sue contraddizioni.

Maria Paiato in «Anna Cappelli»

Maria Paiato in «Anna Cappelli»

Annibale Ruccello, in sintesi, metteva in scena la Napoli effettiva, ormai dedita a un’autorappresentazione nel cerchio della quale, per l’appunto, gli spot pubblicitari trasmessi dalle cosiddette «radio libere» (proprio quelle adorate da Jennifer!) apparivano come il feed-back di situazioni che soltanto in un’epoca lontanissima erano reali e riconoscibili. Sicché ne risultava sottolineata anche l’«abitudine» storicamente precipua della società meridionale in genere, e partenopea in specie, di accogliere in sé – giusto come un costume – sovrapposizioni e stratificazioni di culture le più diverse fra loro: a prescindere dall’atteggiamento degli stessi napoletani, che da sempre hanno proposto la dimensione «teatrale» come chiave di lettura della loro città, e a prescindere, del pari, dall’interessata proiezione di Napoli su un ipotetico scenario da parte di quanti tendono a sfumarne idealisticamente la vicenda economica e civile.
Per questo mi sembra di poter dire che Ruccello è la nostra memoria: perché il merito raro del drammaturgo Annibale Ruccello risiede nel fatto ch’è stato un uomo del suo tempo, capace di coltivare strenuamente la memoria delle proprie radici senza con ciò rinunciare all’indagine, insieme accorata e lucidissima, sul presente. Ed è anche per questo, ovviamente, che Annibale ci manca.

Annibale Ruccello al trucco, mentre sta per «diventare» Jennifer (foto di Peppe Del Rossi)

Annibale Ruccello al trucco, mentre sta per «diventare» Jennifer (foto di Peppe Del Rossi)

Manca a me personalmente, intanto. Giacché penso alle sere di Castellammare – la città di Ruccello, dove anch’io ho trascorso gran parte della vita – in cui, varie volte, mi son fermato con lui davanti alla porta del circolo velico, assieme ad altra gente, ed avevamo per panorama luci lontane sull’acqua buia. Dall’albergo vicino trasparivano fino a noi suoni di chitarra e di fisarmonica – probabilmente una festa di nozze, e non sapevamo se invece fossero le musiche del film che davano nel cinema all’angolo. Tuttavia, continuavamo a discorrere, e a turno uno parlava e l’altro ascoltava. Così, sono stato testimone e in qualche modo «complice» o addirittura ispiratore, credo, del primo manifestarsi delle suggestioni e delle idee che poi avrebbero condotto Annibale a scrivere i testi bellissimi che conosciamo.
Però manca, Ruccello, anche al teatro asfittico che balbetta sui palcoscenici di oggi. L’impasse è determinata da due vizi estremi ed opposti: per un verso la pigrizia del rinchiudersi in una tradizione malintesa (i famosi o famigerati «classici», sempre gli stessi e riproposti a scadenze più o meno regolari con la stessa superficialità scolastica) e per l’altro la protervia dell’abbandonarsi a una «sperimentazione», malintesa a sua volta, che o stravolge quei «classici» fino a renderli irriconoscibili o prende la strada di presunte «novità» (autorali e registiche) fondate solo su velleitarismi intellettualistici. Le eccezioni sui due versanti non mancano, certo; e tuttavia il risultato è che, di solito, in entrambi i casi si resta prigionieri di una forma vuota.
Il teatro di Annibale Ruccello, invece, fu immune – per virtù d’intelligenza e grazia d’invenzione – sia dal primo che dal secondo di questi vizi. Voglio dire che da un lato praticò il rispetto della parola, letteralmente messa al bando nel teatro di ricerca di allora, con la predilezione conseguente accordata alla trama e alla voce come veicolo fondamentale del senso; mentre, dall’altro, non trascurò mai di verificare quella parola e quella trama alla luce, per l’appunto, dei processi storici e delle trasformazioni sociali in atto. Bastano, a dimostrarlo, gli esempi, rispettivamente, dell’amplissimo spettro di modelli letterari adottato in «Ferdinando» (si va da Proust a De Roberto, da Tomasi di Lampedusa a Pasolini, da Balzac a Thomas Mann, da Collins a Huysmans) e, per l’appunto, della cartina di tornasole in cui, sul piano della sintonia col presente, si tradusse «Le cinque rose di Jennifer».
Ma adesso, nel concludere, mi accorgo che debbo correggermi: non ci manca, Annibale Ruccello; giacché, se per sua natura un autore teatrale si compie ed esiste veramente solo sul palcoscenico, nei trent’anni trascorsi dalla sua morte Annibale non se n’è mai andato. I suoi testi continuano ad essere rappresentati. E allora i colpi ansanti alla porta, che in quel maledetto pomeriggio dell’86 mi portarono la notizia del lutto, diventano battiti del cuore.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

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2 risposte a Annibale Ruccello, trent’anni dalla morte

  1. Domenico Sabino scrive:

    Caro Enrico,
    ho letto attentamente e con pathos il tuo bellissimo e interessante articolo/analisi sul teatro di Annibale Ruccello.
    Il tuo parallelo fra «i corpi decapitati» dell’opera dei pupi napoletana scovati da Ruccello e le figure liminari del suo teatro è magnifico e originale. Ma dove è finito tutto il patrimonio catalogato da Annibale? ….Mah, forse questa è un’altra storia!
    Manca Ruccello, eccome.
    La sua assenza ci ha privati anche di una persona onesta, gioiosa, di un intellettuale puro che si “esponeva”; come scrive Pasolini: “Bisogna esporsi […] la chiarezza del cuore è degna di ogni scherno, di ogni peccato, di ogni più nuda passione […]”
    Le opere teatrali di Ruccello vanno rivisitate, rilette, tradite (anche) seguendo la traccia che lui ci ha lasciato; ma a patto che tali “operazioni” vengano fatte da registi e addetti ai lavori fuori dall’affaire-théâtre, per non violare il rigore intellettuale di Annibale.
    Ma credo sia impossibile. Basti vedere lo scadimento culturale che si vive a Napoli e non solo: il neopiedigrottismo dilagante riflette non poco la superficialità intellettuale delle istituzioni politiche e dei loro mandatari. In un presente sempre più omologato, globalizzato e conformista e in vista di un futuro le cui premesse lasciano presagire un deserto culturale apocalittico.
    Un abbraccio affettuoso,
    Domenico Sabino

    P.S. Di seguito un frammento di una mia partitura poetico/drammaturgica inedita scritta, appunto, per sottolineare l’assenza di Annibale Ruccello.

    KOMOS
    di Domenico Sabino

    The moment I wake up
    before I put on my make up
    I say a little prayer for you
    I say a little prayer for you forever… […]
    E i troppi bicchieri di vino bevuti ensemble…
    col fumo delle tue sigarette troppe, troppe assaje…
    che lambiva i nostri discorsi…
    e il nocillo corretto al phármakon???…
    … e ora?…now?…
    i vivi riprenderanno a gioire del loro viaggio d’inganni…
    mentre tu avvolto dal sipario-cielo
    contempli i fuochi di Sant’Elmo buono auspicio per i naviganti. […]

  2. Enrico Fiore scrive:

    Grazie, caro Domenico. Anche tu mi hai emozionato, con i tuoi bellissimi versi.
    Ti ricambio l’abbraccio con uguale affetto.
    Enrico Fiore

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