Effe come Festival, effe come “franfellicco”

 

Una scena di «David è morto», uno dei pochissimi spettacoli «necessari» del Napoli Teatro Festival di quest'anno

Una scena di «David è morto», uno dei pochissimi spettacoli «necessari» del Napoli Teatro Festival di quest’anno

NAPOLI – Dunque, si è conclusa l’edizione 2016 del Napoli Teatro Festival Italia. Ho visto quindici degli spettacoli compresi nel suo cartellone: «Kiss & Cry», il «Macbeth» di De Fusco, «St/ll», «Money!», il «Macbeth» di Bailey, «Mentre aspettavo», «Les aiguilles et l’opium», «Le Troiane», «Black clouds», «Laika», «David è morto», «Ubu and the truth commission», «Animali notturni», «Verso Medea» e «La dictadura de lo cool». Scelti fra quelli che almeno sulla carta mi offrivano sufficiente materia per valutarli – specificamente – in quanto critico teatrale, ad ognuno di essi, dopo averne letto e studiato il testo, ho dedicato su questo sito una recensione ampia e articolata, in pratica un piccolo saggio.

Franco Dragone

Franco Dragone

Nessun giornale avrebbe pubblicato simili recensioni. E niente del genere è stato fatto da qualcun altro. Sicché, adesso, posso esprimere la mia valutazione complessiva sul Napoli Teatro Festival Italia di quest’anno con la coscienza perfettamente tranquilla e senza mezzi termini, come del resto è stato sempre mio costume. E non trovo di meglio, in sede di bilancio, che ripubblicare quanto scrissi a maggio, appena venne presentato – nel corso di una conferenza stampa presso la sede romana dell’Agis – il cartellone del Festival medesimo: «In pratica, Franco Dragone, il neo direttore della rassegna, s’è limitato a questo: ha portato con sé dal Belgio una pattuglia di conoscenti, ha stabilito una certa sinergia con lo Stabile di Napoli (accogliendo il «Macbeth» di De Fusco e «Le Troiane» di Valery Fokin e Nikolaj Roshchin, che poi saranno nella stagione del Mercadante), ha ingaggiato qualche artista internazionale di notorietà corrente (Peter Sellars, William Kentridge, Svetlana Zakharova) e ha distribuito un po’ di briciole ai teatranti indigeni (Carlo Cerciello, Lorenzo Gleijeses, Pierpaolo Sepe, Laura Angiulli, la compagnia di Punta Corsara)».
Aggiunsi, quindi, che si trattava di un cartellone in cui non era dato scorgere «né un progetto, né un filo conduttore, né una sostanza spettacolare rilevante». E a conti fatti, cioè dopo aver visto gli spettacoli sopra elencati, non posso che confermare in pieno quella valutazione. Non è un problema d’ordine estetico: si sono alternati spettacoli belli, spettacoli brutti e spettacoli così così, ma questo accade in ogni Festival; quello che, invece, hanno altri Festival (il Festival dei Due Mondi di Spoleto, la Biennale Teatro di Venezia, RomaEuropa Festival, persino una rassegna minuscola come «Primavera dei Teatri» di Castrovillari) e non ha il Napoli Teatro Festival Italia è, puramente e semplicemente, l’identità. Ossia la capacità di scegliere fra gli spettacoli necessari e gli spettacoli inutili sulla base di una strategia politica (nel senso nobile dell’aggettivo) e culturale (nel senso latino dell’aggettivo, derivante dal verbo, «colere», che significa coltivare).

Marc Labrèche in «Les aiguilles et l'opium»

Marc Labrèche in «Les aiguilles et l’opium»

Per giunta, quasi tutti gli spettacoli di punta (o di maggior richiamo) del Napoli Teatro Festival Italia di quest’anno non erano inediti: vedi «Kiss & Cry» (già presentato l’anno scorso a Torino Danza), «Passage trough the world» (già visto a Bari nel settembre 2015), «Ubu and the truth commission» (che sta girando dal 1997 ed era già stato alla Pergola di Firenze nel 2014), «Carmen Suite» (già in cartellone al San Carlo nel 2015), «Laika» (proveniente, appunto, dal RomaEuropa Festival) e, per concludere con gli esempi, «Les aiguilles et l’opium» (risalente al 1991 e, nella nuova versione, in giro da tre anni). Non ci siamo, allora, neanche sotto questo profilo. Se pure si vuol considerare un Festival come una semplice vetrina, l’ovvia obiezione è che in ogni vetrina che si rispetti vengono esposti i modelli nuovi, non i fondi di magazzino.
Al riguardo, occorre ripensare anche il rapporto che il Napoli Teatro Festival Italia stabilisce con le agenzie di distribuzione degli spettacoli. Ricordo quanto ha scritto a questo sito Anna Maria Monteverdi: «Noterei che due dei big stranieri compresi nel cartellone dell’edizione 2016 del Napoli Teatro Festival Italia (Lepage e Takatani) hanno lo stesso distributore, Epidemic. Mi pare evidente che qua possiamo ipotizzare un ruolo centrale delle agenzie. E quindi, chiaramente, i dubbi su quale linea tematica ci possa essere sono decisamente leciti…». E se è vero che tutti i direttori dei Festival si servono delle agenzie in questione, ciò non toglie che debbano, almeno, rifiutarne gli spettacoli che esse hanno già venduto ad altri Festival, soprattutto in tempi recenti.
Ma vengo, adesso, all’idea principale sbandierata da Dragone, quella di estendere l’attività del Napoli Teatro Festival Italia all’intera regione Campania. In effetti, qualcuno degli spettacoli compresi nel cartellone è stato portato anche in città e cittadine al di là del capoluogo. E tuttavia, una simile pratica a me fa tornare in mente il famoso (o, meglio, famigerato) «decentramento» di qualche decennio addietro.
Rammentate? La Regione Campania, tramite suoi funzionari a ciò preposti, distribuiva fra i teatranti locali un certo numero di «piazze», ossia di repliche dei loro spettacoli da effettuare in paesi, paesini e contrade sparsi qua e là. E al netto delle possibili contaminazioni clientelistiche, l’operazione si traduceva, di solito, in interventi a metà fra il paternalismo e il colonialismo. Arrivavano – calati dall’alto in posti sperduti, e in contesti sociali e culturali assolutamente impreparati a riceverli e a capirli – allestimenti, spesso intellettualistici, del tutto estranei alle tradizioni e ai problemi di quelle popolazioni.

Mico Galdieri

Mico Galdieri

In proposito il caro, indimenticabile Mico Galdieri, impresario principe, raccontava un aneddoto nello stesso tempo divertente e illuminante. Arrivato con un suo spettacolo in uno dei paesi del «decentramento», lo trovò completamente deserto: c’era, sì, il palco montato in piazza, ma nelle strade non passava nessuno, e nessuno stava affacciato al balcone o dietro i vetri della finestra. Poi, incontrato un vecchietto sperduto, Galdieri e la compagnia gli chiesero perché i suoi compaesani fossero andati via. E quello: «Ma quanno maie, stanno tutte ccà! Nun ‘e vvedite, ma ce stanno. Guardate buono ‘ncopp’ ‘e balcune, ‘e vvedite chelli ccascette? So’ chiene ‘e pummarole fracete. ‘E paisane stanno aspettanno ca vuie accuminciate, e si site comm’a chille ca so’ venute ‘a semmana passata…».
Avete capito? Operazioni come quella teorizzata da Dragone richiedono un lunghissimo lavoro propedeutico sul territorio, cospicui investimenti economici e addetti numerosi e dotati. Altrimenti si corre il rischio d’ingenerare un vero e proprio fenomeno di rigetto: lo stesso che si corre deportando a teatro scolaresche che non sanno nemmeno che cosa vanno a vedere e, avendo visto cose che non hanno capito perché non erano state preparate a vederle, prima s’annoiano, poi si disgustano e infine decidono che a teatro non ci andranno più. Lo ricordo ancora una volta: è un rischio che ha denunciato di recente, nel suo allestimento de «Il gabbiano», anche un regista del calibro di Thomas Ostermeier.

Angela Pagano ne «Le Troiane»

Angela Pagano ne «Le Troiane»

Per quanto, poi, attiene all’aspetto organizzativo, il meno che si possa dire è che quest’edizione del Napoli Teatro Festival Italia è stata un autentico disastro. Partita con notevolissimo ritardo, non ha saputo recuperare che in minima parte: a cominciare dalla traduzione dei testi stranieri. Quella di «Black clouds», per esempio, mi è stata recapitata solo nel pomeriggio precedente la «prima». E il caso di quella de «La dictadura de lo cool» è al di là di qualsiasi immaginazione: mi è giunta corredata della precisazione: «Il presente testo è corretto per il 90% della sua stesura; presto avrà un nuovo adattamento per gli stranieri e risulterà corretto al 100%». Infatti, ampi passi del testo inviatomi erano in inglese e in spagnolo ma non in italiano, con la conseguenza che al Napoli Teatro Festival Italia abbiamo visto, de «La dictadura de lo cool», un allestimento incompleto. Saranno più fortunati di noi gli spettatori di Avignone, dove, presumibilmente, andrà in scena (dal 18 al 24 prossimi) l’annunciato «nuovo adattamento per gli stranieri corretto al 100%». E non parliamo delle schede dei singoli spettacoli e del catalogo generale della rassegna. Ne dico appena una: circa «Animali notturni», sia il catalogo che il programma di sala scopiazzavano a man bassa (e naturalmente senza citare la fonte) l’introduzione di Davide Carnevali al volume sul teatro di Juan Mayorga pubblicato nel 2008 dalla Ubulibri.
C’è da notare, ancora, che rispetto all’edizione dell’anno scorso, che si svolgeva in prevalenza all’aperto, l’edizione 2016 del Festival si è svolta in prevalenza al chiuso, almeno per quanto concerne gli spettacoli principali. E siccome quasi tutti i teatri cittadini o non hanno i condizionatori d’aria o ce l’hanno ma funzionano in maniera approssimativa, col caldo che imperversava non è stato esattamente un piacere (vedi le recite di «Verso Medea» al Bellini) starsene incassati al minimo per un’ora e un quarto in una poltrona di velluto. Al Bellini è capitato che qualcuno abbia sofferto fino al punto di dover lasciare la sala. E meno male che, in apertura del catalogo della rassegna, Dragone ha scritto che, da quando è arrivato a Napoli, noi spettatori «ha imparato ad amarci». Figuriamoci che cosa ci avrebbe fatto se avesse imparato a odiarci.

Enzo d'Errico

Enzo d’Errico

Concludo con qualche osservazione sull’atteggiamento che nei confronti del Festival hanno tenuto i giornali. E parto dall’editoriale pubblicato sabato 9 luglio da Enzo d’Errico, direttore del «Corriere del Mezzogiorno». Dopo aver definito il Napoli Teatro Festival Italia di quest’anno «un pasticcio», l’articolo aggiungeva che la rassegna «dopo nove anni rimane ancora una sembianza informe, un contenitore da stipare con le offerte disponibili al momento sul circuito delle grandi agenzie e con piccole mance elargite agli operatori del territorio. Nulla, insomma, che abbia a che fare con una strategia. Nulla che metta radici e cresca»; e concludeva, citando come Festival di segno opposto Spoleto e Umbria Jazz, con l’affermazione che, invece, il Napoli Teatro Festival Italia s’ispira al «modello “grandi magazzini”, dove si espongono i brand altrui, non il proprio».
Condivido una per una queste parole. Ma mi chiedo (e chiedo a Enzo d’Errico, che stimo e verso il quale provo anche affetto, visto che cominciò con me in quell’avamposto del giornalismo vero che fu la redazione napoletana di «Paese Sera», della quale io ero stato tra i fondatori) perché le ha scritte solo a cose fatte, quando ormai i proverbiali buoi erano già scappati dalla stalla. Le stesse parole io le sto scrivendo, per l’appunto, da nove anni; e, ripeto, le ho scritte anche quando venne presentato il primo cartellone del Napoli Teatro Festival Italia firmato da Franco Dragone. Lo dico perché, se certe analisi fossero state fatte prima che il Napoli Teatro Festival Italia cominciasse, ci sarebbe stata una sia pur pallidissima speranza che in corso d’opera qualcosa di storto venisse raddrizzato; se vengono fatte dopo, quando il Festival si è concluso, non servono a niente.

Antonio Latella

Antonio Latella

A loro volta, le mie analisi preventive non servono a niente perché, appunto, resto solo. Mi ritrovo intorno, sempre più numerosi, non altri che gl’imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti. E a proposito, avete notato una cosa? I più in vista fra loro, dopo aver levato peani stratosferici in onore di Dragone e del suo primo Napoli Teatro Festival Italia, si sono immediatamente dileguati di fronte agli scontri fra il neodirettore e Grispello e, soprattutto, di fronte alla spinosa questione dei soldi elargiti dal Festival  – ecco chi è stato veramente amato – alle sale cittadine affittate per darvi il grosso dei suoi spettacoli. Intendiamoci, i predetti imbonitori in servizio permanente effettivo travestiti da giornalisti si son dileguati non nel senso che a teatro non si son visti più (perché, tanto, loro a teatro non ci vanno), ma nel senso che sugli scontri fra Dragone e Grispello e sugli affitti di cui sopra non hanno scritto una virgola. Hanno passato la patata bollente ad altri, in attesa di levare nuovi e non meno stratosferici peani in onore ancora di Dragone, se resterà in sella, o del suo successore.
Antonio Latella – che, non dimentichiamolo, accettò di tornare a Napoli come direttore artistico del Nuovo ma fu costretto a dimettersi dopo meno di un anno – dice che il problema di Napoli è Napoli. E allora non mi resta che terminare a tempo con «Il Mattacino», l’antica pizzica dei «nonsense» stracarichi di senso: «Ih quant’è bella Napule / pare ‘nu franfellicco, / ognuno vene, allicca, / arronza e se ne va!». Per chi non conoscesse il significato del termine «franfellicco», cito il Nuovo Vocabolario Dialettale Napoletano di Francesco D’Ascoli: «zuccherino caratteristico di Napoli, preparato con miele e giulebbe».

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Commenti. Contrassegna il permalink.

4 risposte a Effe come Festival, effe come “franfellicco”

  1. Edgardo Bellini scrive:

    Caro Enrico,

    la tua intelligenza critica e la tua limpidezza intellettuale svettano nell’agorà cittadina. Mi permetto solo di notare che la tua voce, benché chiaramente la più autorevole, non è sola: ad esempio anche alcune testate del web hanno espresso le loro vivaci perplessità su questa edizione del Festival; nella quale, aggiungerei, si sono osservati incredibili vuoti di pubblico, impensabili per festival come – che so – Spoleto o Avignone. Per esempio alla seconda serata di Lepage – uno dei pezzi forti del programma – la sala del Politeama era piena forse a metà, mentre al successivo “Mar” dei teatranti andini la platea del Nuovo ospitava non più di qualche decina di persone. Ma si può immaginare un festival internazionale dove a uno spettacolo importato da un altro continente vanno in sala solo qualche decina di persone?

    Con stima,
    Edgardo Bellini

  2. Enrico Fiore scrive:

    Caro Edgardo,
    ti ringrazio della stima che mi manifesti. E rispondo brevemente alle tue osservazioni.
    Quando ho sottolineato il fatto che sono il solo a denunciare certe storture, mi riferivo alla carta stampata: vedi i rilievi che ho mosso al direttore del “Corriere del Mezzogiorno”, Enzo d’Errico; ed è questo, poi, il motivo che mi ha indotto a cessare la collaborazione con “Il Mattino”.
    Per ciò che invece si riferisce ai vuoti di pubblico, ti sottopongo quanto scrissi appena venne presentato il programma di quest’edizione del Festival: “Sia Dragone che i suoi sponsor politici hanno posto fra i compiti principali del Napoli Teatro Festival Italia quello di costituire un richiamo per i turisti. E vorrei che qualcuno mi spiegasse per quale misterioso motivo i turisti dovrebbero essere attirati a Napoli dai vari Michèle De Mey, Jaco Van Dormael, Shiro Takatani, Françoise Bloch, Brett Bailey, Katia e Marielle Labèque e Omar Abusaada”.
    Più in generale, lo ripeto per l’ennesima volta, il problema è sempre quello di preparare il terreno, altrimenti nessuna pianta attecchirà o avrà una crescita apprezzabile: Spoleto e Avignone, insomma, hanno una storia, mentre il Napoli Teatro Festival Italia ha una semplice vicenda.
    Ti mando i miei più cordiali saluti.
    Enrico Fiore

  3. Caro Enrico,
    per prima cosa la ringrazio per aver ritenuto di citare il nostro giustamente “minuscolo” festival di Castrovillari sul suo prezioso sito accanto a manifestazioni infinitamente più prestigiose.
    Non ho avuto modo di frequentare negli anni il NTF, salvo qualche sporadica incursione (addirittura l’ultima fu in occasione del bellissimo “Riesenbutzbach” di Marthaler), quindi non posso entrare nel merito della sua peraltro circostanziata riflessione. Colgo però quest’occasione per esprimerle invece la nostra gratitudine per le analisi critiche che lei ha dedicato ad ognuno dei sei spettacoli presentati durante i giorni della sua permanenza castrovillarese. È sempre più raro che gli spettacoli possano godere di una critica così approfondita e articolata sia riguardo alla scrittura che alla messinscena nelle sue componenti poetiche ed estetiche. Un’analisi esemplare, e in questo caso ancor più preziosa proprio perché il festival di Castrovillari è dedicato in modo particolare alla nuova drammaturgia e alle nuove generazioni: cioè ad artisti per i quali un confronto così serio come quello con la sua autorevole professionalità ha contribuito a metterne alcuni in evidenza sul piano nazionale e a fornire elementi di riflessione utili alla crescita agli altri.
    Con stima.
    Saverio La Ruina

  4. Enrico Fiore scrive:

    Caro Saverio,
    mi fai troppi elogi. Io mi limito a cercare di compiere il mio dovere nel miglior modo possibile. E chi dev’essere ringraziato, poi, sei tu: per il coraggio e la costanza con cui continui a portare avanti un’impresa meritoria nel deserto sempre più esteso ch’è ormai diventato il mondo della cultura in genere e del teatro in particolare.
    A presto.
    Enrico Fiore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *