La disponibilità che uccide in rima la dignità

Da sinistra, Imma Villa, Sara Missaglia, Luca Saccoia e Lello Serao in una scena di «Animali notturni»

Da sinistra, Imma Villa, Sara Missaglia, Luca Saccoia e Lello Serao in una scena di «Animali notturni»

NAPOLI – «Due ombre s’incrociano ogni mattina per le scale finché un giorno…». È questa, credo, la battuta-chiave di «Animali notturni», il testo di Juan Mayorga presentato al Sannazaro, per la regia di Carlo Cerciello, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia. La pronuncia il personaggio denominato «Uomo basso», e i puntini sospensivi, che traducono una minaccia inespressa ma evidente, alludono all’evento da cui l’autore, uno dei maggiori drammaturghi spagnoli contemporanei, ha tratto spunto.
Si tratta della pesante legge sull’immigrazione varata dal primo governo Aznar. E fornisce il tema centrale e decisivo dell’atto unico in questione: la sintonia fra l’intervento del potere politico, volto a condizionare la vita dei cittadini, e l’incapacità da parte di tutti – intellettuali e persone comuni – di sottrarsi a quel condizionamento, non importa se per debolezza morale o calcolo utilitaristico.
L’«Uomo basso», sulla base della legge del governo Aznar (nel testo mai specificata, e che quindi assume un valore simbolico), ricatta l’«Uomo alto», un colto traduttore, perché ha scoperto che è privo del permesso di soggiorno. Ed ecco che cosa chiede in cambio del suo silenzio: «Che mi legga una poesia, che mi racconti una barzelletta… Niente di umiliante. A volte le chiederò qualcosa di scomodo o di sgradevole, e non con l’intenzione di offenderla, ma per comprovare la sua disponibilità. È questo, in fondo, ciò che mi importa: essere sicuro della sua disponibilità».

Juan Mayorga (foto di Paco Navarro)

Juan Mayorga (foto di Paco Navarro)

L’«Uomo alto» la dà, quella disponibilità. Fino al punto di scrivere per lui il diario che l’«Uomo basso» ha sempre desiderato ma non ha mai saputo scrivere. Sono questi gli «animali notturni» del titolo: l’«Uomo alto», l’«Uomo basso» e, in funzione complementare, la compagna del primo (anche lei traduttrice, però di manuali di sub, di cataloghi di elettrodomestici, dei romanzi di Arizona Kid) e la moglie del secondo (una casalinga teledipendente fedelissima di un programma notturno che dà consigli a chi non può dormire). E sono la metafora di quanti hanno paura della luce, ossia della verità che farebbe emergere la loro pochezza e la loro vigliaccheria.
Quanti ce ne sono in giro, di «animali» del genere? Certo, spesso non ce ne accorgiamo, perché, appunto, sono «notturni», si nascondono. Ma proprio per questo diventano necessari e ammirevoli gli autori come Mayorga e i registi come Cerciello: servono a stanarli, gli «animali notturni», o almeno ad informarcene. E così il pregio e il significato dello spettacolo di cui parliamo consistono nel fatto che esso sottolinea – in maniera sommessa ma eclatante – la tristezza infinita del barattare con piccole prebende (con pochi spiccioli nel caso, ad esempio, di molti giornalisti) il proprio cervello e la propria dignità.

Lello Serao (a sinistra) e Luca Saccoia (a destra) in veste di «minatori»

Lello Serao (a sinistra) e Luca Saccoia (a destra) in veste di «minatori»

Quest’allestimento di «Animali notturni», dunque, risulta perfettamente definito dalla coincidenza fra la dichiarazione di poetica di Mayorga e le note di regia di Cerciello. Dice Mayorga: «Il teatro accade nel pubblico. Non nei ruoli ideati dall’autore. Nemmeno nella scena che occupano gli interpreti. Il teatro accade nell’immaginazione, nella memoria, nell’esperienza dello spettatore». E Cerciello, proprio in riferimento all’esperienza di tanti, parla di «solitudine esistenziale», di «abitudinarietà» e di «una vita basata su rapporti sostanzialmente falsi e precari».
Un’intelligente coerenza interna presiede, d’altronde, all’allestimento medesimo: la scena di Roberto Crea riduce a un plastico l’imprecisata città in cui è ambientato il plot, le musiche di Paolo Coletta oscillano fra la cantabilità (l’abitudine, appunto) e le cupe sonorità elettroniche (la vita negata), le gelide luci di Cesare Accetta richiamano l’acquario che nomina la «Donna bassa» e la regia di Cerciello tiene in vista i personaggi, assolutamente immobili, anche quando non sono di scena (perché nessuno di essi è autonomo: sono tutti sulla stessa barca, a navigare in una bolla di menzogna).
Inutile aggiungere che quel plastico indica, insieme, la causa e l’effetto: il progetto in cui c’imprigiona il potere e la quotidianità in scala che ne deriva, fatta solo di modelli. Ci tocca, insomma, un’esistenza da talpe, giuste le lampade frontali da minatore che a un certo punto indossano l’«Uomo basso» e l’«Uomo alto». E per quanto riguarda gl’interpreti, dico che il migliore mi sembra Lello Serao, per il veleno sottile che inocula nella bonomia dell’«Uomo basso». A posto Imma Villa nel ruolo della «Donna bassa», mentre Luca Saccoia (l’«Uomo alto») e Sara Missaglia (la «Donna alta»), pur impegnati, si tengono troppo vicini ai modi della commedia borghese: che, qui, non c’entra molto.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *