L’animalesco Ubu nel Sudafrica dell’«apartheid»

Dawid Minnaar, Padre Ubu, in una scena di «Ubu and the Truth Commission»

Dawid Minnaar, Padre Ubu, in una scena di «Ubu and the Truth Commission»

NAPOLI – Non c’è che dire, in quest’edizione del Napoli Teatro Festival Italia stiamo mangiando pane e Macbeth: prima è arrivato il «Macbeth» di Shakespeare allestito da De Fusco, poi è arrivato il «Macbeth» di Verdi messo in scena da Bailey e adesso è arrivato (si replica ancora stasera al Mercadante) «Ubu and the Truth Commission (Ubu e la Commissione per la Verità)» di William Kentridge, riscrittura di quell’«Ubu re» di Jarry che, come sappiamo, discende per l’appunto dal «Macbeth» shakespeariano.
Per giunta, Kentridge fa la stessa operazione di Bailey: se quest’ultimo aveva letto l’opera lirica verdiana alla luce della situazione economico-politica del Congo, Kentridge legge il celeberrimo testo di Jarry alla luce della situazione esistente nel Sudafrica dell’apartheid.
Il testo, di Jane Taylor, adotta di conseguenza due registri stilistici: quello dei battibecchi fra il Padre e la Madre Ubu (a base di «cacchio», «zoccole», «miseria schifa», «sante feci», «porcaccia vacca», «culo») e quello freddo, da referto autoptico, dei documenti d’archivio relativi alle uccisioni e alle torture subite dal popolo nero (i ragazzi immobilizzati con pneumatici, cosparsi di benzina e incendiati, gli occhi dei bambini che il fuoco ha fatto saltare dalle orbite, l’«intubazione» dei detenuti mediante una camera d’aria sulla faccia con un’asola per la lingua, dalla lunghezza della quale si capiva quanto mancava all’asfissia).

Nelson Mandela

Nelson Mandela

Occorre notare, però, che risulta un po’ schematico l’alternarsi delle sequenze farsesche mutuate da «Ubu re» e della lettura al microfono delle denunce circa quei crimini fatte dalla Commissione di cui nel titolo (si chiamava, per l’esattezza, «Truth and Reconciliation Commission»). E comunque, parliamo di uno spettacolo datato: quando nacque, nel 1997, l’apartheid era ufficialmente finito solo tre anni prima, sicché rappresentava una ferita ancora aperta; e la «Commissione per la Verità e la Riconciliazione» – un vero e proprio tribunale composto da giudici, avvocati, sacerdoti e medici – era stata istituita da Nelson Mandela appena nel 1995. Allora, dunque, Kentridge metteva il dito in una piaga che continuava a sanguinare e a partorire dolore. Ma oggi, oggi che, fortunatamente, il Sudafrica ha superato e dimenticato la segregazione razziale?
Io l’apartheid l’ho visto, e nel suo periodo più cupo e quando, in Europa, era pressoché ignoto e ignorato. Alla fine degli anni Sessanta ero commissario di bordo sull’«Achille Lauro», l’ammiraglia della flotta mercantile italiana. Facevamo la rotta regolare per l’Australia e la Nuova Zelanda, ma, siccome era chiuso il canale di Suez, per arrivare nell’oceano Indiano dovevamo circumnavigare l’Africa e, perciò, toccavamo Città del Capo. E lì c’erano due mondi ferocemente opposti. Sono entrato nel Groote Schuur Hospital, il regno dell’algida efficienza, e sono entrato nelle bidonvilles, l’inferno della disperata sopravvivenza in cui le ragazze nere si vendevano per una sigaretta. E alla Posta centrale, dove c’erano lo sportello riservato ai bianchi e quello riservato ai neri, non vollero darmi i francobolli per le cartoline quando, provocatoriamente, mi presentai allo sportello riservato ai neri.
Ecco, voglio dire che, oggi, Kentridge avrebbe potuto molto più utilmente affrontare l’apartheid sotto l’aspetto del veleno che inoculava nella vita quotidiana, persino nei suoi risvolti minimi e abitudinari: così non solo sarebbe stato neutralizzato l’ingombro della datazione dell’apartheid medesimo, ma di quella terribile esperienza sudafricana si sarebbe fatto un potente strumento retorico (nel senso dell’efficacia del discorso) per alludere ai drammi che il razzismo continua a provocare anche ai nostri giorni, come, ad esempio, negli Stati Uniti.

Busi Zokufa nei panni di Madre Ubu

Busi Zokufa nei panni di Madre Ubu

Ma, beninteso, queste osservazioni non tolgono nulla al livello formale di «Ubu and the Truth Commission», eccellente soprattutto per quanto riguarda i riferimenti al testo da cui prende le mosse. Sembra proprio che Kentridge abbia tenuto presente la descrizione che Alfred Jarry fece del debutto di «Ubu re», avvenuto la sera del 10 dicembre 1896 al Teatro dell’Opera di Lugné-Poe: «Volevo che la scena si trovasse, appena aperto il sipario, di fronte al pubblico, come uno di quegli specchi nelle favole di Madame Leprince de Beaumont, dove il vizioso furfante può vedersi con corna taurine e corpo di drago, esagerazioni della sua stessa natura viziosa. È senza dubbio straordinario constatare come il pubblico fosse stupefatto nel vedere il suo ignobile sosia, che non gli era mai stato presentato interamente, “fatto”, come Catulle Mendès ha in modo perfetto detto, “dell’eterna imbecillità dell’uomo, della sua eterna lussuria, dell’eterna ingordigia, della bassezza dell’istinto fino alla tirannia; della modestia, della virtù, del patriottismo e degli ideali della gente che ha pranzato bene”».
A determinare una simile cornice di animalesca ebetudine provvedono i tre cani e il coccodrillo creati con rutilante fantasia dalla Handspring Puppet Company e sapientemente interpretati da Gabriel Marchand, Mandiseli Maseti e Mongi Mthombeni. E si tratta – sia detto a beneficio del programma di sala e dei dilettanti allo sbaraglio che infestano gazzette, televisioni, radio e web – di burattini, non di marionette: le marionette sono appese ai fili, mentre qui si adotta la tecnica del Bunraku, il teatro giapponese dei burattini in cui in cui il «ningyo», appunto il burattino, viene manovrato dagli operatori a vista.
Completa il quadro, in funzione palesemente simbolica, l’avvoltoio che dall’inizio alla fine sta appollaiato sul suo trespolo e di tanto in tanto lancia strida minacciose. E il resto è affidato alle ottime musiche di derivazione etnica composte da Warrick Sony e Brendan Jury oltre che, specialmente, a un bellissimo film d’animazione dello stesso Kentridge. Né da meno, per concludere, appare la prova di Dawid Minnaar e Busi Zokufa nei ruoli del Padre e della Madre Ubu.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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