Troiane ed achei che banchettano, seduti fianco a fianco

Angela Pagano, nel ruolo di Ecuba, in una scena de «Le Troiane» (foto di Marco Ghidelli)

Angela Pagano, nel ruolo di Ecuba, in una scena de «Le Troiane» (foto di Marco Ghidelli)

NAPOLI – Come sappiamo, ne «Le Troiane» Euripide mise in campo il potente meccanismo retorico per cui la guerra non viene descritta direttamente, ma solo attraverso gli echi che essa, sebbene finita, continua a destare nell’animo delle prigioniere. Ed è per questo che non si dà luogo, qui, a una vera e propria azione drammatica: il testo si articola in episodi distinti che incarnano, evidentemente, i sussulti della coscienza dei personaggi femminili protagonisti, scandendo l’escalation del loro dolore.
Del resto, si spiega così – oltre che sulla base della tendenza alla demitizzazione e alla demistificazione propria di Euripide in generale – l’effetto (straniante fino ai limiti del comico) provocato dal dialogo fra Ecuba e Menelao: quest’ultimo promette all’infelice regina di esaudire la sua richiesta che Elena venga uccisa, ma gli spettatori sono ben al corrente del fatto che accadrà esattamente il contrario, giusta quell’Elena che nel palazzo di Menelao riavrà tutti gli onori e gli agi che aveva prima. E d’altronde, un’accentuata ironia presiedeva già al colloquio iniziale fra Poseidone e Atena, alla quale il primo diceva senza mezzi termini: «Tu muti sempre di animo all’improvviso e per caso: ora odio ora amore ti prende, senza limiti».
Insomma, ne «Le Troiane» si determina una situazione che ha ben poco di realistico e, quindi, di fisico: tanto è vero che Ecuba comincia il suo lamento – in modi persino più deliranti di quelli della Cassandra che interverrà qualche momento dopo – invocando che «lo spasimo del corpo» si trasformi nella «vertigine del canto»; e Andromaca, al suo apparire, dirà: «Noi siamo un ricordo… un passato di ombre…».
Tutto questo senza contare la dimensione surreale in cui si sviluppa – come in un autentico processo, con l’accusa e la difesa contrapposte – il confronto fra Ecuba ed Elena: quel groviglio inestricabile di nomi di dei e di dee costituisce l’ennesima dimostrazione del fatto che Euripide è l’autore più ateo della storia, e non solo della storia del teatro.

Giovanna Di Rauso è Andromaca

Giovanna Di Rauso è Andromaca

Ebbene, Valery Fokin e Nikolaj Roshchin – registi dell’allestimento de «Le Troiane» coprodotto dallo Stabile di Napoli e dal Teatro Aleksandrinskij di San Pietroburgo e presentato nel parco archeologico Pausilypon nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia – mostrano, all’inizio dello spettacolo, di aver capito quel che fin qui ho cercato di riassumere: vedi l’invenzione, senz’alcun dubbio intelligente e fondata, di far sedere al tavolo di un banchetto, fianco a fianco, le prigioniere e i loro carcerieri achei. Mentre l’andirivieni di un cameraman con tanto di «PRESS» scritto sulla pettorina lascia pensare anche, con altrettanta fondatezza, a una delle solite conferenze stampa con annesso rinfresco.
Infatti, Ecuba pronuncia le sue prime battute in sintonia con entrambe le situazioni: essendo un po’ alticcia e stando dietro un microfono. E non meno convincente risulta la caricatura di quel Poseidone munito di un gigantesco fallo rosso e di quell’Atena en travesti con tanto di poppe finte. Ma se, in tal modo, Fokin e Roshchin sottolineano a dovere le intenzioni dissacratorie di Euripide, per il resto dello spettacolo si abbandonano a trovate che lo stesso Euripide tradiscono nella maniera più drastica e plateale possibile, mescolando confusamente manierismi, ovvietà, forzature e incomprensibilità.
Che dire, per esempio, dei comandanti achei che arrivano a bordo di due Suv, indossando elmi criniti su uniformi palesemente apparentate a quelle degli ufficiali nazisti? E le proiezioni su uno schermo che fa da fondale dei primi piani dei protagonisti, col che, altrettanto palesemente, i due registi russi ostentano la stessa passione cinematografica che nutre Luca De Fusco? E la Cassandra che a un certo punto si mette a pronunciare le parole al contrario? E l’Andromaca da Grand Guignol che con un manganello (vedi, in parallelo, il Taltibio affacciato dalla sommità dello schermo come Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia) riduce Elena a un ammasso di carne sanguinolenta? E l’Astianatte «retrocesso» a neonato mentre il testo di Euripide parla di un «fanciullo»? E le Troiane che, dopo tanto parlare del loro destino di schiave presso questo o quello dei condottieri achei, vengono invece, tutte, ammazzate con un colpo di pistola alla nuca?

Leandro Amato è Taltibio

Leandro Amato è Taltibio

Ora, negli oltre cinquant’anni della mia attività professionale di critico, io sono stato immancabilmente dalla parte del teatro di sperimentazione, convinto che sia sempre opportuno (e in qualche caso addirittura obbligatorio) tradire i testi antichi o, comunque, classici. Ma, naturalmente, sul termine tradimento occorre intendersi: se significa rileggere quei testi (e apportarvi conseguenti modifiche) con gli occhi della sensibilità odierna, potenziando il messaggio degli autori alla luce della temperie sociale, politica e culturale dei nostri giorni, va bene, anzi benissimo; ma se significa inventarsi astruserie che, oltretutto, fanno dire agli autori in questione cose che non si son mai sognati di dire, allora va male, anzi malissimo. E in ciò mi collego alle motivate requisitorie contro il «teatro di regia» presunto che su questo sito ha firmato Francesco Canessa, ex sovrintendente del Teatro di San Carlo e, specialmente, critico musicale di vaglia.
Venendo adesso agl’interpreti, mi limito ad osservare che in un contesto come quello descritto si rivelano piuttosto sprecati il talento, il carisma e la sapienza tecnica che Angela Pagano mette al servizio del personaggio di Ecuba. E degli altri cito i due che mi sembrano i migliori, Giovanna Di Rauso (Andromaca) e Leandro Amato (Taltibio).
Lo spettacolo sarà in scena al Mercadante, nell’ambito della stagione dello Stabile di Napoli, dal 22 marzo al 2 aprile dell’anno prossimo. E voglio augurarmi che, dovendo riallestirlo in uno spazio chiuso, Fokin e Roshchin sappiano affrancarlo da almeno qualcuna delle incongruenze e ridondanze di cui sopra.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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