Jean Cocteau e Miles Davis, il genio contro il dolore

Wellesley Robertson III in una scena di «Les Aiguilles et l'Opium» di Robert Lepage

Wellesley Robertson III in una scena di «Les Aiguilles et l’Opium» di Robert Lepage

NAPOLI – «È uno scultore che lavora nel teatro. Robert ha la grande abilità di riscoprire il significato degli oggetti e il significato della lingua: usa la lingua come un oggetto teatrale; usa il francese, l’inglese, l’italiano, il cinese come se fossero sedie».
Così Richard Fréchette, uno degli attori partecipanti allo spettacolo, «La trilogia dei Dragoni», che nell’87 rivelò all’Europa l’originale talento di Robert Lepage. E subito mi tornarono in mente, quelle parole, mentre al teatro «Il Vascello», dieci anni dopo, assistevo a «Les Aiguilles et l’Opium (Gli aghi e l’oppio)», un allestimento ideato dal regista canadese nel ’91 e presentato adesso, in versione italiana, nell’ambito del RomaEuropa Festival; come, è ovvio, con altrettanta immediatezza me ne son ricordato mentre al Politeama assistevo al riallestimento di «Les Aiguilles et l’Opium» (si replica ancora oggi alle 19) dato nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia.
Infatti, proprio di questo si tratta qui: del continuo e strenuo identificarsi del testo, firmato dallo stesso Lepage, con la fisicità della scena, dei singoli arredi e addirittura, per l’appunto, degli oggetti richiamati, sia pure indirettamente, nel testo medesimo.
Siamo di fronte a tre itinerari (del pensiero, del sentimento, dell’arte) che s’intersecano.
Per una singolare coincidenza, nello stesso anno, il 1949, Jean Cocteau (sessantenne) visita per la prima volta New York e Miles Davis (ventitreenne) scopre Parigi. Sono entrambi prigionieri della droga, Cocteau dell’oppio e Davis dell’eroina; e mentre, di ritorno in Francia, lo scrittore stende sull’aereo la sua «Lettera agli americani», a Saint-Germain-des-Prés il jazzista s’innamora di Juliette Gréco.

Marc Labrèche interpreta Cocteau e Lepage

Marc Labrèche interpreta Cocteau e Lepage

Quarant’anni dopo, nel 1989, Robert Lepage si trova anche lui a Parigi, alloggiando nella mitica stanza numero 9 dell’Hotel «La Louisiane», quella in cui abitarono nientemeno che Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre mentre lui scriveva «La nausea». Soffre, il giovane canadese, per il silenzio del suo ex amore che da New York non risponde al telefono. E gli vengono in aiuto, manco a dirlo, giusto le pagine di Cocteau e le note di Davis…
Ora, non v’è dubbio che «Les Aiguilles et l’Opium» sia uno spettacolo datato, in particolare per quanto di letterario e di compiaciuto (sotto il profilo dell’autobiografia) comporta un simile mélange. E del resto ne è cosciente lo stesso Lepage, se ha dichiarato di «aver esitato a lungo» di fronte alla proposta di riprenderlo: stanti per l’appunto il fatto ch’era nato da «una dolorosa rottura amorosa» e la conseguenza che la sua «scrittura scenica era invecchiata».
Ma, ciò premesso, non si può non rilevare l’abilità con cui l’autobiografia e il compiacimento letterario vengono stemperati, come dicevo, nell’equazione e nell’interscambio, oltremodo eclatanti, stabiliti con sistematica inventiva fra le parole (ma anche i suoni, ma anche la musica) e gli oggetti di scena, compreso il corpo degli attori. E tanto grazie, soprattutto, al cubo che ospita l’azione: una scatola che ruota su se stessa a mezz’aria e che, aperta sul davanti (l’assenza della famosa quarta parete!), costituisce con ogni evidenza un palcoscenico sul palcoscenico.
Gli attori vi si muovono stando spesso in equilibrio precario, e talvolta, per non cadere, legati alle pareti con un cavo. Ed è inutile sottolineare che una circostanza del genere costituisce, sul piano visivo, un perfetto equivalente della crisi mentale e nervosa che determinano in Cocteau e in Davis la droga e nel giovane Lepage la delusione sentimentale. Senza contare, d’altronde, che l’«optical art», qui largamente adottata, si pose come scopo principale giusto quello d’indurre uno stato d’instabilità percettiva.

La siringa che cala su Davis

La siringa che cala su Davis

Su questo terreno Lepage propone sequenze memorabili che rimandano, alternativamente, al dolore (l’immagine della siringa che scende verso il braccio vero di Davis) e all’effetto raffinato (l’assemblaggio controluce, dietro uno schermo, dei pezzi della tromba). Ma, per di più, l’esibizione della tecnologia multimediale risulta vivificata da un’ironia tanto scoperta quanto allusiva.
Penso, mettiamo, a quella Gréco che lascia aperta la porta della predetta camera 9 dell’Hotel «La Louisiane», l’unica dotata di acqua corrente, come segnale e invito, per i suoi amici esistenzialisti, a lavarsi almeno di tanto in tanto. E non occorre, poi, utilizzare molte parole circa la bravura che i due interpreti – Marc Labrèche (Cocteau e Lepage) e Wellesley Robertson III (Miles Davis) – dispiegano nel padroneggiare e rendere questa triplice dimensione di sofferenza, fuga e gioco.
Lo spettacolo, per giunta, invita a una salutare riflessione sul presente, anticipato con impressionante profetismo dalla «Lettera» di Cocteau: «Americani, cercherò di dormire e di sognare. Amo vivere i miei sogni e dimenticarli al risveglio. Nel sogno vivo in un mondo dove non c’è ancora controllo. Ma ci sarà, se prenderà piede la vostra inclinazione. Si controlleranno i sogni, e non sarà il controllo degli psichiatri ma quello della polizia. Si controlleranno i sogni, e saranno puniti. Saranno puniti gli atti nati nel sogno».
Infine, desta un trepido alito di poesia la storia della stanza numero 9 dell’Hotel «La Louisiane». Le presenze che vi si sono determinate in passato fanno di certi luoghi i catalizzatori di sensazioni che travalicano il tempo. Nel periodo in cui – nell’ambito delle rassegne sul «Théâtre des Italiens» organizzate a Parigi da Maurizio Scaparro – presentai nel Théâtre du Rond-Point e nel Teatro Comédie et Studio des Champs Elysées i miei omaggi a Tiberio Fiorilli, il gran comico napoletano dell’Arte che fu maestro di Molière, e al caro Annibale Ruccello, del quale ricorrerà a settembre il trentesimo anniversario della tragica, ingiusta morte, presi a frequentare, lì vicino, lo storico ristorante «Le Berkeley», al numero 7 di Avenue Matignon. E ci tornai ogni volta che tornai a Parigi. E non capivo la ragione del fascino che esercitava su di me. Finché non scoprii che lo aveva frequentato anche Cocteau.

                                                                                                                                              Enrico Fiore

Questa voce è stata pubblicata in Recensioni. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *