NAPOLI – L’attesa. È l’attesa il segnale più preciso e inquietante che in un certo paese ha preso stanza la dittatura: perché l’attesa è qualcosa d’innaturale, è il contrario dello scorrimento inesausto che è la vita. È importante il treno che ti porta in un posto, non il tempo che impieghi nel prepararti a partire per quel posto.
Me ne accorsi mentre, durante la dittatura dei colonnelli, giravo per le città e i villaggi della Grecia a diffondere i messaggi politici degli esuli: la gente voleva, certo, che quel regime cadesse, ma restava ferma, non sapendo che cosa fare perché tanto accadesse. E durante la «Rivoluzione dei Garofani», in Portogallo, sentii una canzone di Ermelinda Duarte, «Somos livres (Siamo liberi)», che diceva fra l’altro: «Un gabbiano volava, volava / ali di vento cuore di mare. / Come lui siamo liberi / siamo liberi di volare». Appunto, la libertà che s’identifica col volo, il cuore che s’identifica con ciò ch’è sempre mutevole e mai uguale a se stesso.
Ecco, a questo ho pensato vedendo al Bellini – nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia – lo spettacolo (si replica ancora stasera) del giovane regista siriano Omar Abusaada, non a caso intitolato «Mentre aspettavo». Giacché l’azione ruota intorno al trentenne Taim, un filmmaker che giace in coma all’ospedale dopo essere stato brutalmente picchiato a uno dei tanti posti di controllo che infestano Damasco. Ed è stato lo stesso Abusaada a dichiarare che quel coma è una metafora della situazione in cui si trova il suo paese: «né vivo né morto, ma in una zona grigia tra la disperazione e la speranza, tra la rassegnazione e la combattività».
Infatti, quella che mi sembra la battuta-chiave del testo di Mohammad Al Attar – gelida e ironica insieme, e pronunciata proprio da Taim – suona: «L’attesa è una brutta cosa, ma in realtà è il nostro universo che assume diverse forme. La paralisi, il coma, l’anestesia, i morti che non vengono sepolti, i morti annegati che non sono stati ancora trovati, i dispersi di cui si ignorano le sorti. Ci siamo ritrovati tutti qui: guardiamo il vostro mondo in maniera beffarda. Ci sono dei comatosi qui nel teatro in mezzo a voi, ma non li vedete. Abbiamo le nostre lobby dappertutto».
Di conseguenza – sullo sfondo delle bombe, delle manifestazioni contro Assad, dell’Isis, delle migrazioni – Taim, pur essendo in coma, può lasciare il letto e continuare a interagire con gli altri: la madre Amal, la sorella Nada, la fidanzata Salma e gli amici Omar e Osama. Lui stesso, dunque, è come la Siria, «né vivo né morto». Ed è ciò che ribadisce Osama, quando dice: «Siamo tutti anime perdute, quelli che sono partiti e quelli che sono rimasti».
Sul piano dello spettacolo in sé, poi, molto giustamente Abusaada punta sulla dimensione collettiva in cui s’inscrivono le vicende singole dei personaggi: di qui l’impianto scenico di Bissane Al Charif, un doppio livello di una sorta di scatole che alludono insieme a tutti gli ambienti contemplati dal plot, e il fatto che gli attori sono sempre in vista, anche quando non partecipano all’azione e non hanno la battuta. E si tratta, aggiungo subito, di attori assolutamente bravi, da citare senza distinzioni: Amal Omran (Amal), Mohammad Alarashi (Osama), Nanda Mohammad (Nada), Fatina Laila (Salma), Mouiad Roumieh (Omar) e Mohamad Al Refai (Taim).
Si spiega, insomma, che questo spettacolo stia per trasferirsi al Festival di Avignone. E una volta tanto, allora, il Napoli Teatro Festival Italia offre una primizia. Ma, per concludere, voglio tornare al testo di Al Attar.
È forte e smarrito, amaro e carezzevole, dolorante ed agile come la tensione che muove i passi dei rivoluzionari. E tenero come la notte di stelle che Taim si ferma a contemplare dalla terrazza di casa appena tornato dall’ospedale, innocente se non guarito. Ho risentito la stessa tenerezza che sentii in Vassilis, un bambino di nove anni che incontrai a Nuova Tirinto, villaggio di pastori in una Grecia che al posto delle strade aveva solo tratturi nella polvere. Naturalmente, Vassilis non sapeva chi fossi e che cosa stessi facendo. Ma mi si mise dietro e non mi lasciò più. E io, che non so che ne è stato, so per certo che, dopo l’attesa, è diventato anche lui un gabbiano.
Enrico Fiore