Balletti di tavoli e sedie nell’Europa delle banche

Da sinistra, Jérôme de Falloise, Benoît Piret, Damien Trapletti e Aude Ruyter in una scena di «Money!» (foto di Antonio Gomez García)

Jérôme de Falloise, Benoît Piret, Damien Trapletti e Aude Ruyter in «Money!» (foto di Antonio Gomez García)

NAPOLI – «Lo sappiamo tutti: l’Europa unita, che doveva essere una comunità di popoli, è diventata la comunità delle banche; e ha sostituito all’economia reale, quella costruita in concreto dal lavoro degli uomini e dalle loro intraprese commerciali, un’economia virtuale, quella imposta dalle strategie astratte, ma spietate, di un capitalismo anonimo legato alle leggi del mercato finanziario e ai giudizi delle agenzie di rating».
È l’attacco della relazione sul tema «Napoli, l’Europa e il teatro delle diversità» che il 10 maggio del 2013 tenni nella «Sala delle Colonne» del Teatro della Pergola di Firenze, in occasione del pubblico riconoscimento che l’Accademia della Crusca, nella persona del suo presidente, Nicoletta Maraschio, volle tributare alla mia attività di saggista e di critico, consegnandomi a titolo simbolico una copia della ristampa anastatica della prima edizione, datata 1612, del vocabolario della Crusca. Ed ecco quanto aggiunsi subito a quell’attacco: «È fin troppo ovvio che cosa può fare il teatro per un’Europa ridotta in questa condizione: può (ma sarà meglio dire che deve, pena la propria stessa sopravvivenza) ridestare nel vecchio continente l’esercizio di una cultura fondata sull’incontro dal vivo fra gl’individui, ciò che, naturalmente, costituisce la premessa irrinunciabile per un’intesa – umana e produttiva insieme – fra le nazioni».
Mi permetto quest’autocitazione perché «Money!» – lo spettacolo che la compagnia belga Zoo Théâtre presenta ancora stasera al Nuovo, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia – è il riscontro perfetto della mia denuncia e del mio auspicio del 2013. Infatti – per invitarlo a riflettere sui meccanismi, ad un tempo perversi e surreali, ideati e messi in moto dalla finanza e dalle banche per condizionare e (in non pochi casi) annullare la vita (non solo economica, ma anche intellettiva e morale) della gente – qui ci si rivolge direttamente al pubblico, parlandogli dal proscenio o attraverso battute estemporanee e ammiccamenti.
Aggiungo che il testo, frutto di una scrittura collettiva, risulta molto interessante, giacché procede per spostamenti progressivi – e non poteva essere diversamente, data la materia di cui si tratta – sul piano del paradosso. E questo fin dall’inizio: dal prologo che annuncia: «Pensiamo sia importante mostrarvi come accade che un uomo che non ha alcuna predisposizione naturale alla violenza possa finire col perpetrare una violenza atroce, senza che intendesse davvero che la cosa fosse o diventasse violenta» si arriva alla rivelazione che quell’uomo ha acquistato azioni della Shell, dai cui oleodotti nel delta del Niger ci sono state, fra il 2005 e il 2012, centonovantotto perdite che «hanno provocato la distruzione di tutto l’ecosistema, e hanno impedito a centinaia di pescatori nigeriani di poter vivere del loro lavoro poiché non c’erano più pesci visto che c’era petrolio ovunque». «E quindi – conclude il nostro uomo – mi tocca riconoscere… gli effetti altamente violenti della mia attività petrolifera, cioè della mia co-attività petrolifera».
Naturalmente, i quattro attori in campo (i bravissimi Jérôme de Falloise, Benoît Piret, Aude Ruyter e Damiem Trapletti) si scambiano senza sosta i ruoli dei banchieri, dei traders e dei clienti. E l’assai funzionale regia di Françoise Bloch li inchioda dall’inizio alla fine (per significare che son tutt’uno con i propri ruoli di carnefici o vittime) a tavoli e sedie montati su ruote, che altrettanto continuamente si combinano fra loro e, a tratti, si scatenano in balletti tanto frenetici quanto ineffettuali.
Certo, non mancano le lungaggini e i cali di ritmo determinati dal peso degli argomenti messi sul tappeto. Ma non è questo il punto. Il punto è che ieri sera, al Nuovo, c’erano in pratica solo gli addetti ai lavori. E s’intende che nessun giornale lo rileverà. Ma s’intende pure che al riguardo dobbiamo meditare tutti: teatranti, critici (se ancora esistono) e, soprattutto, il trionfalista direttore del Festival.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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