NAPOLI – Nell’annunciare «St/ll» – lo spettacolo di Shiro Takatani presentato al Politeama nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia – i giornali si sono preoccupati innanzitutto di elencare i vari significati della parola inglese «still»: silenzioso, immobile, ancora. Ma hanno dimenticato una cosa importante e ne hanno trascurata un’altra non meno decisiva. Mentre proprio la cosa dimenticata e quella trascurata concorrono, in perfetta sinergia, a definire i contenuti e le forme dello spettacolo in questione.
La cosa dimenticata è che nel 2007 il videoartista giapponese, uno fra i più visionari del mondo, firmò un fortunato allestimento intitolato «Life». E dal momento che, se si vuole capire davvero un artista, bisogna fare attenzione al suo percorso, il titolo «St/ll» va immediatamente collegato, per l’appunto, al precedente «Life»: ne risulta la locuzione «still life», che, com’è noto, in riferimento alla pittura significa natura morta.
La cosa trascurata, invece, è la barra che nel titolo dello spettacolo di cui parliamo sostituisce la «i»: «St/ll» richiama subito, è vero, la parola «still», ma ne sospende il significato che scaturirebbe dallo scriverne di seguito le cinque lettere che la compongono. E questo rimanda direttamente allo scopo che si è prefisso Takatani: quello – come ha dichiarato – di opporre all’assunto che il tempo sia invisibile la convinzione che esso, al contrario, sia visibile e che lo si possa addirittura toccare.
Ebbene, come si può rendere visibile e, quindi, toccare il tempo? Semplicemente fermandolo, sottoponendolo a una frattura: quella, giusto, di cui rappresenta un simbolo grafico la barra predetta. E infatti, «St/ll» accoppia la dimensione fluida, in divenire, costituita dall’acqua nella quale affondano i piedi i quattro performer in azione (non solo danzatori ma anche attori, non solo attori ma anche danzatori) e la fissità dell’arredo scenico. È proprio ciò che fa il pittore quando realizza una natura morta: porta in primo piano (nella circostanza lo fanno le proiezioni) una porzione del mondo che diventa, per l’appunto, la cristallizzazione del tempo, sottratto (e di qui la possibilità di «vederlo» e «toccarlo») allo scorrere indistinto dell’insieme delle cose, che incessantemente si sommano nel determinare l’estraneità impassibile dell’esistente.
«Dividere, dividere ancora! / Separare ogni cosa dall’altra». È questa, dunque, la battuta-chiave del brevissimo testo di Alfred Birnbaum (in pratica un vero e proprio haiku) che accompagna lo spettacolo. E il pensiero corre senza esitazione al passo capitale di «Andrea o I Ricongiunti» di Hofmannsthal, uno dei testi fondamentali (e non a caso si tratta di un romanzo incompiuto) del Novecento: «Il separare – soltanto se separiamo noi viviamo veramente – se noi separiamo anche la morte è sopportabile, solo quello che è mischiato è orribile». Ed ecco, poi, che in questo collegamento dell’Oriente all’Occidente s’incarna un esempio probante di come dovrebbe, sempre, funzionare un Festival internazionale.
Allora, tirando le somme, «St/ll» si rivela uno spettacolo ipnotico e raffinatissimo, tenuto in bilico – con forza e delicatezza insieme – sul confine, perennemente mutevole, fra le arti che intervengono a formarlo. E per ciascuna di queste, a moltiplicare i significanti chiamati in causa, ci si riferisce ai vari momenti storici in cui la stessa ha trovato i propri codici espressivi: per quanto riguarda il teatro, ad esempio, si va dalla stilizzazione rituale e dall’aulico cerimoniale del Nô ai ritmi «nervosi» dello Shingeki, il «teatro nuovo» giapponese; e si passa dalle teorie di Gertrude Stein sul «landscape play» e sul «presente continuo» all’applicazione e alla reinvenzione che ne fece (poniamo in «Persephone», di cui cogliamo qui un eco evidente) Robert Wilson.
Superfluo, infine, sprecare parole sulla prova inappuntabile dei quattro interpreti: Yuko Hirai, Mayu Tsuruta, Misaku Yabuuchi e Olivier Balzarini. E piuttosto mette conto di porre l’accento su due altri aspetti rilevanti di «St/ll»: la sottile ironia/autoironia (quel metronomo reiteratamente posto in evidenza!) e lo scambio continuo fra la realtà e la sua riproduzione e/o manipolazione, fra la visione concreta e l’illusione ottica. Uno scambio che, sempre a titolo d’esempio, verifichiamo quando – grazie a una videocamera che cala dall’alto – i corpi dei performer che si muovono sul lungo tavolo collocato al centro dello spazio scenico sembrano, invece, fluttuare nell’aria; e quando non sai se le figure che vedi dietro uno schermo siano proiezioni da Wayang Kulit, il teatro delle ombre indonesiano, o attori in carne e ossa.
Forse, visto che a un certo punto indossano maschere da Commedia dell’Arte, sono gli stessi fantasmi che apparvero ad Hofmannsthal mentre immaginava lo smarrirsi del suo Andrea nelle misteriose calli di Venezia.
Enrico Fiore
Visto ieri,
gran bello spettacolo. Preciso. Pignolo. Cadenzato.
Buona giornata.
Fulvio Arrichiello
Siamo d’accordo, allora.
Cordiali saluti.
Enrico Fiore