Addio ad Albertazzi, il teatro come la vita

Giorgio Albertazzi

Giorgio Albertazzi

Durante i funerali di Marguerite Yourcenar venne letto, per sua espressa volontà, questo passo del poema della religiosa buddista Ryo Nan: «Per sessantasei anni i miei occhi hanno contemplato le scene mutevoli dell’autunno. Ho parlato a sufficienza del chiaro di luna. Non mi domandate più niente. Prestate ascolto alle voci dei pini e dei cedri quando il vento tace». E non a caso, dunque, la scrittrice definì «ritratto di una voce» il suo capolavoro, «Memorie di Adriano». Così come non a caso, nel 1989, il regista Maurizio Scaparro fece di quella definizione il sottotitolo dello spettacolo tratto per il Teatro di Roma dal celeberrimo libro e ambientato nella villa dell’imperatore a Tivoli.
Infatti, la voce – nel suo prodursi – è puro suono, puro significante: e in altri termini, considerata in sé, è un «viaggio». Allo stesso modo in cui Adriano – al di là degli eventi concreti della propria avventura terrena raccontati in quel libro: le origini spagnole, l’educazione in Grecia, le esperienze militari, l’ascesa al vertice del potere, l’amore per le forme apollinee di Antinoo, il corrompersi del corpo nella vecchiaia e nella malattia – incarna, nelle intenzioni e nella scrittura della Yourcenar, nient’altro che l’alito della vita nel suo divenire, in pari tempo ambiguo ed esplicito, misero e meraviglioso, terribile e consolante.
Ebbene, la voce di Adriano è stata, lo sappiamo, quella di Giorgio Albertazzi, spentosi l’altro ieri a novantadue anni. E qui – senza rievocare puntigliosamente la sua lunghissima e prestigiosa carriera (basta citare, per esempio, i titoli «Antonio e Cleopatra», «Peer Gynt», «Enrico IV», «Riccardo III», «Edipo re», «Urfaust», «Edipo a Colono», «Re Lear») – voglio ricordarlo soprattutto per come s’è manifestato negli ultimi tempi.
In breve, la storia dell’ultimo Giorgio Albertazzi è stata, nel primo quindicennio del secolo, la storia più interessante del teatro italiano. Bisogna parlare non dell’attore, ma dell’uomo Albertazzi. Poiché – se Sofocle (scrisse l’«Edipo a Colono», l’estrema sua tragedia, sulla soglia dei novant’anni) s’identificò col proprio personaggio – Albertazzi (che, quando interpretò quell’Edipo, di anni ne aveva quasi ottantacinque) s’identificò, insieme, con Sofocle e col suo personaggio. Voglio dire che mi sembra evidentissima una cosa. Nel tratto conclusivo della propria carriera Albertazzi ha cercato i testi per consegnarsi: a una fine della vita che fosse l’inizio di una vita nuova, tale da tenere ancora accesi, nella nostra memoria, i dubbi e le domande suggeriti da lui attraverso le parole di quei testi.
Edipo, infatti, osserva che «solo agli dei non capita d’invecchiare per poi morire», ma in seguito aggiunge un accorato e orgoglioso «ricordatevi di me». E del resto, come interpretare altrimenti la scelta da parte di Albertazzi di dar voce – prima che all’Edipo che s’acceca perché vuole vedere oltre il limite dei significati dati – per l’appunto all’imperatore Adriano e, poi, al capitano Achab? Alla sua «piccola anima smarrita e soave» Adriano dice: «cerchiamo d’entrare nella morte ad occhi aperti»; e Achab s’inabissa inchiodato come Cristo sulla schiena di quella Moby Dick che, giusto, è la sua inafferrabile verità.
Il cerchio si chiude perfettamente. Giacché «Moby Dick» – e non per pura coincidenza firmò il suo adattamento Antonio Latella, il più ardito sperimentatore del teatro italiano di oggi – è il riepilogo di tutti gl’interrogativi che possiamo porci e di tutte le risposte che non abbiamo. Mi aveva detto mesi prima Albertazzi: «Achab sono io»; e aveva aggiunto: «In quel personaggio, a ben guardare, ci puoi scavare anche Amleto». E fu esattamente quello che constatammo. L’interpretazione di Albertazzi – lì a Spoleto, nel chiostro di San Nicolò – si rivelò come una premessa al finale: in cui l’attore, dopo aver esclamato: «Addio Achab», gettò via le grucce e, accoccolato al proscenio, partì dalla constatazione definitiva («Il resto è silenzio») per tornare indietro al dubbio di sempre («Essere o non essere»).
C’era lo sciabordio del mare, in sottofondo. Perché quella era l’ultima spiaggia del mattatore: conosciuta la sconfitta della Parola, non gli restava che pronunciare ancora una volta le parole che forse sono le più alte mai pronunciate su un palcoscenico. Con quell’Albertazzi, insomma, eravamo di fronte a qualcosa che andava oltre il teatro.
Infatti, a proposito del suo «Re Lear» – affrontato nel 2010 a ottantasette anni, e ancora con Latella – Albertazzi mi disse: «Questo personaggio mi ha accompagnato per tutta la vita, dicendomi spesso verità impietose. E la più impietosa me la dice oggi. In quanto attore, ma specialmente in quanto Giorgio Albertazzi, sono un Lear senza titoli, un re del caos, di un mondo senza regole e senza sentire: un mondo attonito e vorticoso di cose e fatti che scorrono, immagini impazzite: figli contro padri, amore freddo, amicizie che cadono, fratelli che si dividono, sommosse nelle città, discordie e tradimenti a palazzo».
Sempre non a caso, del resto, volle subito dopo cimentarsi in uno spettacolo su Picasso, il più grande eversore dell’arte contemporanea. E al termine della rappresentazione – nel romano Teatro Quirino, durante il secondo degli incontri con il pubblico che Geppy Gleijeses mi aveva chiesto di condurre (del primo era stato protagonista Luca De Filippo) – disse di me: «È l’unico critico che sia anche un artista: capisce tutto e vede tutto; e se non vede qualcosa che secondo lui avrebbe dovuto vedere, se la inventa». Al di là di quanto mi riguarda, credo che si tratti di una grande lezione sul modo in cui occorre frequentare il teatro: con attenzione e con fantasia. Appunto, caro Giorgio. È lo stesso modo in cui occorre frequentare la vita.

                                                                                                                                            Enrico Fiore

(«Il Mattino», 29 maggio 2016)

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