Una discesa agl’inferi tra Granados e Puccini

Giuseppina Piunti (Rosario) e Andeka Gorrotxategui (Fernando) in una scena di «Goyescas»

Giuseppina Piunti (Rosario) e Andeka Gorrotxategui (Fernando) in una scena di «Goyescas»

NAPOLI – Se, come sappiamo, l’opera lirica  nacque dall’esigenza di rendere la musica in forma drammatica, «Goyescas» – l’atto unico di Granados proposto al San Carlo in dittico con «Suor Angelica» di Puccini – nacque dall’esigenza di rendere la pittura in forma musicale. Granados, infatti, era un pittore dilettante. E quando, nel 1897, la Spagna festeggiò il centocinquantesimo anniversario della nascita di Goya, s’interessò talmente alle opere di quest’ultimo che ne tradusse alcuni dei temi caratteristici (la Spagna popolare e la Madrid dei «majos» e delle «majas») in una suite pianistica, intitolata per l’appunto «Goyescas» e a proposito della quale si parlò, giusto, di «pitture sonore».
Proprio una tensione verso la pittura, in linea con il bozzettismo di Albéniz, anima del resto la parte di «Goyescas» relativa alle danze. E direi che nel rispetto e nell’esaltazione di tutto questo sta il pregio della regia di Andrea De Rosa: a partire dal riferimento dichiarato di talune sequenze a quadri celeberrimi di Goya come – a prescindere dalle due «Majas», la «vestida» e la «desnuda» – «Il fantoccio», «La prateria di Sant’Isidoro» e (vedi le torce elettriche adoperate in guisa di armi da fuoco puntate contro gli astanti) «Il 3 maggio 1808 a Madrid: fucilazioni alla montagna del Principe Pio». Ma tale ultimo riferimento introduce, poi, alla chiave di lettura complessiva scelta da De Rosa.
Qui l’azione viene spostata – dagli ambienti previsti dal libretto di Periquet Zuaznabar: il sagrato e il chiostro della chiesa di San Antonio de la Florida a Madrid, il capannone in cui si svolge il ballo del «candil», il giardino del palazzo di Rosario, sempre a Madrid, e il Prado – in un luogo unico, costituito (le scene sono dello stesso regista) dal cratere di un vulcano e dai suoi bordi. Perché De Rosa interpreta lo scontro fra il torero Paquiro e il capitano della guardia reale Fernando, entrambi innamorati di Rosario, come l’esplosione di una follia che alla fine determinerà un’autentica discesa agl’inferi, con la bocca di quel cratere che, apparentata alla porta dell’Ade, inghiottirà via via tutti i personaggi in campo. E non a caso, dunque, nel duello fra Paquiro e Fernando moriranno tutti e due, non solo, come da libretto, il secondo.
Viene in mente la sequenza conclusiva del «Mahabharata» che Peter Brook sta portando in giro col titolo «Battlefield»: al termine della sanguinosissima battaglia fra i Kauravas e i Pandavas, il vincitore, Yudishtira, afferma: «La vittoria è una sconfitta», e lo sconfitto, il re Dhritarashtra, che ha perso tutti i suoi cento figli, confessa: «Avremmo potuto evitare questa guerra».
La follia – ecco un’altra splendida idea di De Rosa – s’identifica, in più, con un’onnivora e implacabile autoreferenzialità. Giacché, poniamo, il duello fra Paquiro e Fernando si svolge – giusta la professione del primo – nei termini esatti della corrida, con Paquiro che trafigge Fernando con la spada e Fernando che, indossando una testa di toro, a sua volta infilza Paquiro con le corna. E tanto basti ad annotare che, in ultima analisi, il risultato eccellente a cui perviene la regia è la cancellazione di ogni connotato naturalistico e, peggio, folcloristico.

Maria José Siri nei panni di Suor Angelica

Maria José Siri nei panni di Suor Angelica

Del resto, a dire della coerenza concettuale ed espressiva che distingue lo spettacolo in scena al San Carlo, c’è il fatto che, in «Suor Angelica», De Rosa sostituisce al convento vero e proprio previsto dal libretto di Giovacchino Forzano una di quelle strutture singolari – una sorta di manicomi mascherati da conventi – che esistevano nell’Italia del secondo dopoguerra e in cui venivano confinate le giovani in stato di «peccatrice» (nella circostanza si tratta, appunto, di Suor Angelica, che ha concepito un figlio senza essere sposata) o segnate da difetti fisici o lievi disturbi psichici. E anche qui, allora, siamo di fronte a una discesa agl’inferi.
In quelle strutture, infatti, si poteva impazzire sul serio. O si finiva per avvelenarsi, come accade a Suor Angelica quando scopre che il suo bambino è morto. E De Rosa, di conseguenza, chiude completamente il boccascena con una cancellata; e taglia via il finale miracolistico dell’opera originale: al posto della Madonna che sospinge verso Suor Angelica un pargolo biondo, adesso compare una pazza che consegna alla suora morente un ordinario pupazzo. Non c’è né la redenzione né la semplice speranza o illusione che possa esserci.
Infine, mi sembra che la direzione di Donato Renzetti sia apprezzabile soprattutto per l’equilibrio che riesce a stabilire: in «Goyescas» fra il virtuosismo tecnico, le suggestioni del genere «chico», gli stilemi da «zarzuela grande» e l’espressività tipicamente romantica che Granados mutuò da Schumann; e, in «Suor Angelica», fra il verismo e le pulsioni autobiografiche. Puccini, infatti, aveva una sorella, Iginia, suora agostiniana a Vicopelago, nei pressi di Lucca, e proprio alle monache del convento toscano fece ascoltare, molto commosso, l’opera al pianoforte. Senza contare che, per inseguire «sonorità religiose» (così come Granados inseguì le predette «pitture sonore»), Puccini si rivolse di nuovo all’amico Pietro Panichelli, il frate domenicano musicofilo che già l’aveva aiutato per il «Te Deum» e il Mi del campanone di San Pietro in «Tosca» e tornò ad aiutarlo, appunto, per il coro finale di «Suor Angelica».
Di buon livello anche il cast vocale: che, tanto per citare le due protagoniste, annovera nel ruolo di Rosario l’avvenente Giuseppina Piunti e in quello di Suor Angelica una bravissima Maria José Siri. In conclusione, uno spettacolo di classe, nel senso dell’intelligenza accoppiata alla creatività. Una creatività plausibile.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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