Un’«Alcesti» presa troppo sul serio. Con annesso De André

Galatea Ranzi con i piccoli Tancredi Di Marco e Mirea Bramante in una scena di «Alcesti» (foto di Maria Pia Ballarino)

Galatea Ranzi con i piccoli Tancredi Di Marco e Mirea Bramante in una scena di «Alcesti» (foto di Maria Pia Ballarino)

SIRACUSA – Più di un regista, e da vari anni a questa parte, ha capito che non poche delle tragedie di Euripide sono in realtà delle commedie. Ma sicuramente non è fra questi Cesare Lievi, regista dell’allestimento dell’«Alcesti» in scena nel Teatro Greco di Siracusa nell’ambito del 52° ciclo di rappresentazioni classiche promosso dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Prende quel testo (la lettera di quel testo) molto sul serio. Troppo.
Eppure, a far entrare in sospetto, e quindi a suggerire di prendere con le proverbiali molle la presunta tragedia in questione, basterebbe la sua trama. Alcesti si offre al dio della morte in cambio del suo sposo Admeto, ma viene riportata in vita da Eracle, commosso da cotanto amore. E in un simile minuetto di zuccherosi sensi anche il più ingenuo o accondiscendente dei lettori sarebbe costretto a scorgere una serrata critica del mito, nella circostanza condotta perfino sulla traccia di Gorgia e Stesicoro, nonché una parimenti risentita polemica contro la religione e la tradizione.
In proposito – a parte che già suscita una risata la risposta («Io l’ho sempre con me: è un’abitudine») che nel prologo Apollo dà a Tanato che gli ha chiesto: «Che ne fai dell’arco?» – vedi nel primo episodio l’addio di Alcesti al letto nuziale, che bacia e inonda di lacrime. E vedi, autentico acme di una vera e propria comicità, la scena di Admeto che, nel separarsi per sempre dalla moglie, le dice che, sì, accoglierà il desiderio di Alcesti che lui non si risposi e la sostituirà nel letto di cui sopra con un’«effigie» del suo corpo realizzata «da mano sapiente di artefici»: un’«effigie» (oggi sarebbe una bambola gonfiabile) con la quale addirittura si accoppierà. Anche se, precisa lo scrupoloso Admeto, «(…) di gelo mi saprà quel piacere, ma più lieve farà il peso dell’anima».
Roba da perversione dichiarata, insomma. Mentre difficilmente saremmo capaci di rinvenire in un altro qualsiasi testo teatrale un auspicio più traboccante di romanticismo (e persino di cattolicesimo integralista ante litteram) di quello che leva il coro nel secondo stasimo: «Così potessi anch’io trovarlo l’amore che di due fa uno». E nel quarto episodio il quadro si completa (stavolta in chiave di spudorato maschilismo) con la cinica affermazione di Ferete, il padre di Admeto che s’è rifiutato di sostituirsi al figlio per salvarlo dalla morte: «Son questi i matrimoni che son utili agli uomini».

Stefano Santospago nei panni di Eracle (foto di Gianni Luigi Carnera)

Stefano Santospago nei panni di Eracle (foto di Gianni Luigi Carnera)

Ancora, non è da farsa a tutto vapore la scena, descritta da un servo nello stesso quarto episodio, in cui risuonano contemporaneamente, nel palazzo di Admeto, la canzonaccia di un Eracle abbrutito dal vino e i pianti dei domestici sconvolti dalla morte di Alcesti? E non sembra un’arietta metastasiana il lamento di Admeto: «Dove andrò? Dove mi fermerò? / Che dirò? E che non dirò?»? E non ricalca i tipici sketch dell’avanspettacolo il balletto di Admeto e di suo padre Ferete che si rimandano – come in una partita di tennis, con il coro in veste di giudice di sedia – l’accusa d’essere ciecamente e crudelmente egoista?
Non è un caso, del resto, che un regista cinematografico votato al mélo come Almodóvar proprio il mito di Alcesti abbia voluto evocare, rovesciandolo, nel film «Parla con lei». Ma, ripeto, l’allestimento di «Alcesti» in replica nel Teatro Greco di Siracusa prende tutto sul serio. E non fa che sottolineare con enfasi, fino alla tautologia, ciò ch’è già evidentissimo: a partire dall’impianto scenico di Luigi Perego, interamente giocato sul nero (la morte) e il rosso (l’amore che vince la morte) con l’aggiunta di un mare di papaveri che – mentre si riferiscono al culto di Demetra e di Persefone, la sposa di Ade – alludono anche, per dichiarazione dello stesso Perego, alla canzone di De André «La guerra di Piero». Anzi, Perego, nelle sue note, ne cita i quattro versi iniziali («Dormi sepolto in un campo di grano / non è la rosa non è il tulipano / che ti fan veglia dall’ombra dei fossi / ma sono mille papaveri rossi») per precisare che lui di papaveri rossi ce ne ha messi ben «1400».
Così non ha ragion d’essere nemmeno il più pallido dubbio che qui non si tratti della morte. E infatti, lo spettacolo viene aperto da un corteo funebre completo di bara, croce, preti e banda. Il quale, poi, viene seppellito da un gigantesco drappo nero, a rivelare che la morte tocca a tutti. E dal canto suo, Lievi amplifica il naturalismo mostrandoci pedissequamente dal vivo – in una serie di teatrini allestiti sul fondo – gli episodi che saggiamente Euripide aveva «straniato» riducendoli a un puro racconto.

Paolo Graziosi è Ferete (foto di Gianni Luigi Carnera)

Paolo Graziosi è Ferete (foto di Gianni Luigi Carnera)

Una sola volta il nostro regista ha un sussulto di consapevolezza: quando disegna l’assai godibile ritratto caricaturale di un Eracle munito di una clava spropositata e che fa il suo ingresso preceduto da un gruppo folcloristico con tanto di tammorra. E a questo punto, però, una domanda a Lievi s’impone: perché mai, se non era uno scombinato, Euripide avrebbe dovuto volgere in burla, fra tanti personaggi irrimediabilmente tragici, per l’appunto e unicamente il figlio di Zeus?
Lasciamo perdere, va’. Ci rimette anche un’attrice del rango di Galatea Ranzi, alla quale (qui, ovviamente, è nel ruolo di Alcesti) non rimane che aggrapparsi al mestiere. Come fanno anche Danilo Nigrelli (Admeto), Paolo Graziosi (Ferete) e Ludovica Modugno (l’Ancella). Il migliore, per i motivi suddetti, è Stefano Santospago nel ruolo di Eracle. E prima dell’inizio (ho visto lo spettacolo venerdì scorso) le scolaresche che costituivano il grosso del pubblico si sono abbandonate ripetutamente alla «ola». È l’ennesima riprova che non serve «deportare» gli studenti a teatro senza prepararli adeguatamente. A meno che non vogliamo consolarci con l’ipotesi che quelle scolaresche abbiano capito ciò che non ha capito Cesare Lievi.

                                                                                                                                             Enrico Fiore

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